REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere -
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere -
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 2489372013 proposto da: STATO ITALIANO, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;
- ricorrente -
contro
F.G., elettivamente domiciliata in Roma, Via R. Boscovich 3, presso lo studio dell’avvocato Lelio Placidi, rappresentata e difesa dall’avvocato Dara Gabriele, giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
e contro
F.S., F.B.; – intimati -
avverso la sentenza n. 40/2013 della Corte d’Appello di Caltanissetta, depositata il 25/02/2013 r.g.n. 341/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2015 dal Consigliere Dott. Marco Rossetti;
udito l’Avvocato Gianna De Socio;
udito l’Avvocato Giovanni Palmeri per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore i Generale Dott. Carestia Antonietta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il [omissis] V.M.P. venne assassinata da G.G., che subito dopo si tolse la vita.
Nel 2004 l’ex coniuge della vittima (F.S.) e i due figli di essa (F.B. e F.G.) convennero dinanzi al Tribunale di Caltanissetta lo Stato italiano, in persona della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi della L. 13 aprile 1988, n. 117 , esponendo che:
(-) l’omicida, G.G., già legato da una precedente relazione con la vittima, l’aveva più volte minacciata di morte, se non fosse tornata a vivere con lui;
(-) nel corso di una perquisizione nel suo domicilio erano state rinvenute tre lettere nelle quali manifestava l’intenzione omicida- suicida;
(-) il Sostituto Procuratore della Repubblica titolare dell’indagine a carico di G.G. non aveva adottato alcun provvedimento idoneo a prevenire l’imminente gesto omicida, nonostante esso fosse ampiamente prevedibile.
Conclusero pertanto chiedendo la condanna dello Stato al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza dell’uccisione dell’ex coniuge e madre.
2. Il Tribunale di Caltanissetta con sentenza 23.11.2008 n. 592 accolse parzialmente la domanda.
Ritenne inescusabile la mancata adozione di atti di indagine da parte del Sostituto Procuratore della Repubblica di Termini Imerese, e di conseguenza affermò la responsabilità dello Stato per la morte di V.M.P..
Rigettò tuttavia integralmente la domanda di risarcimento del danno proposta dall’ex coniuge; ed ai figli accordò il risarcimento del solo danno patrimoniale.
3. La sentenza venne appellata in via principale dallo Stato Italiano, il quale si dolse dell’affermazione della colpa del magistrato inquirente; ed in via incidentale dai danneggiati, i quali invocarono un più cospicuo risarcimento.
4. Con sentenza 25.2.2013 n. 40 la Corte d’appello rigettò sia l’appello principale che quello incidentale.
Il primo, in base all’assunto che il magistrato inquirente tenne nella specie una condotta negligente; il secondo in base all’assunto che la l. 117/88 non consentiva nel caso di specie il ristoro del danno non patrimoniale, nè tale limitazione violava alcun diritto costituzionalmente garantito.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla presidenza del Consiglio dei ministri, sulla base di tre motivi.
Ha resistito con controricorso la sola F.G..
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Si assumono violati la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, comma 3, lett. (a); artt. 133, 203 e 206 c.p.; art. 73 c.p.p..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere “grave” la negligenza del magistrato del Pubblico Ministero che non adottò provvedimenti coercitivi nei confronti del (futuro) omicida: sia perchè quell’attività consisteva comunque nella valutazione di indizi e prove, come tale sottratta al giudizio di responsabilità; sia perchè comunque non ricorrevano i presupposti di legge per l’adozione di misure coercitive, preventive o di sicurezza.
1.2. Il motivo è inammissibile, perchè sollecita da questa Corte una valutazione di merito, ulteriore e di segno opposto rispetto a quella compiuta dalla Corte d’appello.
Il ricorrente infatti sviluppa in sostanza la seguente tesi:
- gli indizi a carico di G.G. per i reati che aveva commesso in danno della sua futura vittima (molestie, danneggiamento) non erano gravi;
- quindi il Sostituto Procuratore non era in colpa per non avere chiesto l’adozione di misure di sicurezza o un trattamento sanitario obbligatorio;
- ergo, ritenendo il contrario la Corte d’appello ha violato l’art. 133 c.p..
1.3. Tuttavia nel nostro caso la Corte d’appello non ha mai negato che la pericolosità dell’indagato dovesse valutarsi alla stregua dei criteri dettati dall’art. 133 c.p., ovvero sulla base delle prescrizioni di cui agli artt. 203 e 206 c.p.: ha semplicemente ritenuto che, alla luce degli elementi segnalati dai Carabinieri al Pubblico Ministero, quella pericolosità potesse e doversi sospettarsi, e pertanto gravemente negligente fu il magistrato inquirente che non adottò alcun tipo di provvedimento e non compì alcun tipo di atto. Quello appena riassunto è un giudizio di fatto, per di più sorretto da una motivazione non illogica e non incongrua, e di conseguenza non è sindacabile in questa sede.
Nè rileva che il giudice di merito, per compiere questo accertamento di fatto a lui demandato, abbia dovuto compiere una valutazione prognostica necessariamente presupponente valutazioni anche giuridiche. Questa Corte infatti, sia pure nella diversa materia della responsabilità civile dell’avvocato, ha già affermato che la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell’azione giudiziale malamente intrapresa o proseguita, sebbene abbia contenuto tecnico-giuridico, costituisce comunque valutazione di un fatto, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione. (Sez. 3, Sentenza n. 3355 del 13/02/2014, Rv. 630155).
Tale principio deve trovare applicazione, attesa la identità di ratto, anche nel nostro caso: e deve dunque concludersi che la valutazione del giudice di merito, circa la possibilità per il magistrato dei Pubblico Ministero di adottare misure coercitive per prevenire un intento omicidario manifestato per iscritto, costituisce un accertamento di fatto, a nulla rilevando che per formulare la relativa valutazione il giudice debba prendere in esame le norme di legge che disciplinano gli atti delle indagini preliminari.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Anche col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Si assumono violati la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, comma 3, lett. (a); art. 2043 c.c.; art. 206 c.p.; art. 73 c.p.p..
Il motivo, pur formalmente unitario, si articola In realtà in plurime censure.
Per un verso, infatti, l’Amministrazione ricorrente lamenta che la Corte d’appello ha errato nel ritenere sussistente un valido nesso di causa tra l’omessa adozione di provvedimenti da parte del Pubblico Ministero e il danno.
Per altro verso lamenta che comunque gli elementi a disposizione del magistrato inquirente non lasciavano affatto presagire nè una malattia mentale di G.G., nè un intento omicidario.
Per altro verso ancora lamenta che la valutazione della pericolosità di G.G. si sarebbe dovuta compiere con giudizio ex ante, e cioè in base agli elementi disponibili al momento in cui il magistrato inquirente tenne la condotta omissiva che gli si vorrebbe addebitare a titolo di colpa, e non già ex posi, ovvero una volta acquisita la conoscenza del delitto da lui commesso.
2.2. Anche questo motivo è inammissibile.
Pur esso, infatti, sebbene denunci formalmente un errore di diritto, nella sostanza finisce per criticare una valutazione squisitamente di merito, e cioè la ritenuta sussistenza del nesso di causa tra la condotta inoperosa del Pubblico Ministero e l’omicidio di V.M.P..
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare tre fatti decisivi e controversi, idonei ad escludere la responsabilità del Pubblico Ministero, e cioè:
(a) l’omicida aveva denunciato per minacce e lesioni la sua ex amante ed il padre di lei;
(b) l’omicida, dopo avere scritto le lettere contenenti le minacce di morte, aveva scritto altre lettere che ridimensionavano il senso delle prime;
(c) dopo l’omicidio, era stata rinvenuta una lettera scritta dall’omicida e indirizzata al Pubblico Ministero, nella quale nulla lasciava intendere che l’autore avesse propositi delittuosi.
3.2. Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
La sentenza della Corte d’appello impugnata in questa sede è stata depositata il 25.2.2013. Al presente giudizio, di conseguenza, si applica il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Le Sezioni Unite di questa Corte, nel chiarire il senso della nuova norma, hanno stabilito che per effetto della riforma “è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dai testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Nella motivazione della sentenza appena ricordata, inoltre, si precisa che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti”.
3.3. Nel caso di specie, il “fatto” materiale costituito dall’esistenza della prevedibilità degli intenti delittuosi di G.G., e dall’esistenza d’un nesso di causa tra l’inerzia del Pubblico Ministero e l’omicidio, sono stati comunque presi in esame dalla Corte d’appello: di conseguenza, la circostanza che uno o più degli elementi istruttori acquisiti al giudizio non siano stati da questa esaminati non è motivo che consenta il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c. , n. 5.
4. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1.
P.Q.M.
la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c.:
-) dichiara inammissibile il ricorso;
-) condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri alla rifusione in favore di F.G. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 8.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;
-) da atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 5 marzo 2015.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2015