Quando di giustizia sportiva parlano coloro che non ne sanno o fingono di non saperne: brevissime note a margine di un articolo disinformante

Leggo nel quotidiano on line Il Dubbio, del 26 marzo 2024, un articolo intitolato «La giustizia sportiva si riscopre garantista e con Acerbi riesuma il ragionevole dubbio», con il quale vengono compiute due operazioni gravemente disinformanti.
Certo, ognuno è padrone delle proprie opinioni, ma a me pare un tipico caso in cui non si sa se sia da preferirsi l’ignoranza o mala fede.

La vicenda riguarda la decisione 26 marzo  2024 n. 82, con cui il Giudice Sportivo Nazionale della Lega Serie A della FIGC, ha ritenuto di non dover sanzionare l’offesa verbale razzista, che un calciatore avrebbe indirizzato ad un avversario di pelle nera, ritenendo non raggiunta la «ragionevole prova» circa la sussistenza di uno specifico contenuto discriminatorio della condotta contestata.

Nell’articolo, da una parte si taccia il sistema della giustizia sportiva di basarsi sulla «presunzione di colpevolezza e non su quella di innocenza, invertendo l’onere della prova», dando così luogo nientepopodimenoché ad «Un cortocircuito folle, che garantisce condanne in abbondanza, e contrario allo Stato di diritto in cui ci troviamo», da un’altra parte  – errando altrettanto platealmente – si accusa il Giudice Sportivo di avere dato, al calciatore che ha lamentato l’offesa, addirittura la colpa «per non aver interrotto la partita dando il consenso per andare avanti, un’affermazione che risuona come quelle rivolte alle presunte vittime di stupro, poco credibili per non essersi ribellate, ci si perdoni il parallelismo. Ma tant’è».

Cominciando dalla fine è agevole osservare, dovendo smentire l’autrice dell’articolo, che il Giudice Sportivo (da lei condannato in “contumacia” e senza neppure un difensore d’ufficio…) si è limitato a indicare gli elementi che aveva a disposizione per decidere e, assolutamente senza attribuire alcuna colpa al calciatore offeso, ha evidenziato tra di essi «l’interruzione del gioco al fine di consentire un chiarimento tra i calciatori; la ripresa del gioco infine (dopo un’interruzione durata circa un minuto e trenta secondi) in seguito al confronto tra i calciatori e non avendo espresso il calciatore Juan Jesus alcun dissenso al riguardo».
Dunque davvero nessuna ingiusta attribuzione di colpa, ma solo un fatto “storico” oggettivo, che suggeriva l’esito positivo del chiarimento fra i due atleti, fermo restando che il Giudice Sportivo ha anzi esplicitamente riconosciuto la buona fede dell’atleta offeso e la responsabilità dell’offensore.
L’assoluzione è stata infatti determinata dalla mancanza di adeguata prova circa la natura razzista delle parole profferite, essendo il capo d’incolpazione basato sull’art. 28 del Codice di Giustizia Sportiva della FIGC (“Comportamenti discriminatori”).

Altra accusa tecnicamente erratissima, lanciata con l’articolo in esame, è quella secondo cui il sistema della giustizia sportiva sarebbe basato sulla presunzione di colpevolezza, essendo vero esattamente il contrario.
La regolamentazione giustiziale delle Federazioni Nazionali viene infatti esplicitamente integrata dai principi generali del processo civile e costituzionali del giusto processo, quali richiamati dall’art. 2 del Codice di Giustizia Sportiva del CONI.
Fanno eccezione, qui in sintesi, solo specifici casi responsabilità oggettiva e (in parte) il processo antidoping, ma si tratta di concetti noti e applicati anche nel sistema della giustizia dello Stato Italiano.

Invero, sotto il profilo della formazione della prova e convincimento dell’organo giudicante, vige pacificamente il principio secondo cui un fatto è in linea generale dimostrato quante volte i mezzi di prova consentano di raggiungere un grado equiparabile al “più probabile che non”, certamente inferiore a quello definito dall’espressione “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Va detto che queste regole vengono correttamente citate nell’articolo in commento, ma poi, et voilà, con un salto mortale carpiato se ne fa suggestivamente discendere che «La giustizia sportiva ha scelto di condannare anche in assenza di reati codificati».
Ciò non solo è inesatto, perché molte infrazioni sono adeguatamente tipizzate, ma non viene neppure detto che tutti i sistemi giustiziali disciplinari, mica solo quello sportivo, prevedono la sanzionabilità di condotte contrarie a principi di natura generale che debbono conformare l’attività dei soggetti di una determinata organizzazione.

Non è qui possibile approfondire i complessi temi di diritto sottesi alla vicenda, ora solo accennati, ma dall’autrice dell’articolo, firma di spessore de Il Dubbio, mi sarei aspettato una presa di posizione più coerente e profonda, non così urlata e scandalistica, pur riconoscendo che ha qualche ragione nell’affermare che la giustizia sportiva non è un sistema perfetto, come peraltro non è neppure quello dello Stato Italiano.

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