In tema di consenso informato, il medico che abbia agito nel rispetto delle leges artis non risponde del reato di lesioni gravissime per il solo fatto di avere fornito una informazione non adeguata al livello del rischio [Cassazione Penale, Sez. V, 21 aprile 2016, n. 16678]

Laddove il medico agisca con legittima finalità terapeutica e, nonostante i suoi sforzi, sopravvenga la malattia, questa non gli può essere imputata solo in ragione della cattiva informazione in precedenza fornita al paziente perchè – pur essendo la lesione conseguenza dell’evoluzione del male che egli non è riuscito a contrastare – mancano sia il nesso di causalità con il consenso viziato, sia l’imputabilità soggettiva (la Suprema Corte precisa tuttavia che a soluzione opposta si giunge nel caso in cui la cattiva informazione abbia impedito di acquisire dal paziente informazioni essenziali rispetto all’intervento curativo). [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FUMO Maurizio – Presidente -
Dott. ZAZA Carlo – Consigliere -
Dott. CATENA Rossella – Consigliere -
Dott. SETTEMBRE Antonio – rel. Consigliere -
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da: C.F. [omissis]; CA.MA. [omissis];
avverso la sentenza n. 344/2011 Corte Appello Sez.Dist. di Sassari, del 20/02/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in pubblica udienza del 24/11/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Antonio Settembre;
- Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, Dott. Francesco Salzano, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione del reato;
- Udito, per C.F., l’avv. Pierluigi Concas in sostituzione dell’avv. Luigi Concas, che ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste; in subordine, ha chiesto che, riqualificato il fatto come lesioni colpose, sia dichiarata la prescrizione del reato; in estremo subordine ha chiesto il rinvio alle sezioni unite.
- Udito, per Ca.Ma., l’avv. Nicola Satta che si è riportato al ricorso e si è associato alle richieste dell’avv. Concas.

Svolgimento del processo

1. C.F. e Ca.Ma. – primario della Clinica Neurologica dell’Università degli studi di Sassari il primo e aiuto medico il secondo – sono stati tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Sassari per rispondere del reato di cui agli artt. 582 e 583 cod. pen. in danno di B.R. perchè, senza preventiva ed adeguata informazione, sottoponevano la paziente ad intervento chirurgico, a cui conseguivano lesioni gravissime a carico della donna.

2. La vicenda è stata così ricostruita dai giudici di merito. B.R., di anni 64, era stata ricoverata nel mese di gennaio 2006 presso l’Ospedale Civile “[omissis]” di [omissis], ove le veniva diagnosticato un meningioma della base cranica.
Dimessa – su sua volontà – dall’ospedale di Nuoro, la donna si era ricoverata il 3 febbraio nella Clinica Neurochirurgica di Sassari, ove le veniva confermata la diagnosi e prospettata la possibilità di un intervento chirurgico, da eseguire dopo uno studio più accurato del caso da parte dell’equipe medica e l’acquisizione di strumentazione adeguata, di cui la Clinica di Sassari era mancante.
In effetti, dopo l’esecuzione di altri esami clinici, la B. fu operata dagli odierni imputati in data 11-12- aprile 2006, con esito infausto, perchè, dopo un intervento durato 24 ore, i chirurghi non riuscirono nemmeno a raggiungere la base del meningioma, per estirparlo dalla sua sede, con la conseguenza che dovettero desistere dall’iniziativa senza aver nulla concluso; anzi, aggravando le condizioni di salute della paziente, per via della manipolazione – durata a lungo – della materia cerebrale. Anche all’uscita dalla sala operatoria i medici furono reticenti, perchè riferirono ai familiari di aver rimosso una parte del meningioma e che si sarebbero riservati di intervenire nuovamente, dopo dieci o quindici giorni. Invece, dopo poche ore la paziente era stata interessata fa una forte emorragia, che aveva costretto i sanitari all’applicazione di una derivazione ventricolare esterna e, il giorno dopo (13 aprile), a causa di una emorragia intraparenchimale, ad eseguire un intervento di “lobectomia frontale sinistra decompressiva”.
Il risultato complessivo è stato la riduzione della donna ad uno stato quasi vegetativo.

3. Gli imputati furono dapprima citati a giudizio per lesioni colpose gravissime, essendo stata ravvisata una violazione delle leges artis; successivamente, dopo l’espletamento di perizia, fu elevata imputazione di lesioni volontarie per l’assenza di adeguata informazione circa i rischi che l’intervento comportava, circa l’adeguatezza della struttura ospedaliera ad affrontare una prova tanto impegnativa e la possibilità di attuare l’intervento in strutture specializzate.

4. Il giudice di primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, mandava assolti gli imputati per insussistenza del fatto, ritenendo che la paziente ed i familiari avessero ricevuto adeguata informazione e che, comunque, la finalità terapeutica, perseguita dai sanitari, impediva di imputare loro – a titolo di dolo – l’evento lesivo.

5.La Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, andando di contrario avviso ha ritenuto, dopo un rinnovato esame delle risultanze istruttorie (tra cui le sommarie informazioni – rese dal coordinatore del reparto degenza di Neurochirurgia e da due infermieri – acquisite dal difensore degli imputati ex art. 391 octies cod. proc. pen.), che l’informazione era stata assente verso la paziente e gravemente carente verso i familiari, per cui – dopo un accurato esame della normativa e della giurisprudenza sul punto – ha affermato la responsabilità degli imputati a titolo di dolo intenzionale per le lesioni strumentali all’intervento chirurgico, a titolo di dolo diretto per i processi patologici provocati dalla manovre manipolative della massa cerebrale e a titolo di dolo eventuale per le lesioni gravissime conseguite. Non senza aver prima dedotto l’esistenza di profili di colpa a carico degli imputati per violazione delle leges artis.

6. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, entrambi gli imputati.

6.1. C.F. ricorre a mezzo dell’avv. Luigi Concas, che si avvale di tre motivi.
Col primo si duole del fatto che le dichiarazioni rese dal responsabile del reparto degenza di neurochirurgia, dr. O., e quelle degli infermieri S. e Si. – i quali avrebbero riferito della puntuale informazione resa non solo alla paziente, ma anche ai familiari – siano state svalutate con motivazione illogica, essendo stato ravvisato un contrasto – in realtà inesistente – tra le dichiarazioni rese dagli stessi.
Col secondo lamenta l’erronea applicazione degli artt. 43 e 582 cod. pen. , essendo ormai consolidata – sostiene – l’opinione, sia in dottrina che in giurisprudenza, che esclude la compatibilità tra la finalità terapeutica e il dolo di lesioni, anche a fronte di una cattiva informazione circa i rischi dell’intervento chirurgico.
Col terzo motivo lamenta la mancata riduzione della pena, che deve conseguire alla scelta del rito.

6.2. Ca.Ma. ricorre a mezzo dell’avv. Nicola Satta, che si avvale anch’egli di tre motivi.

6.2.1 Col primo lamenta la violazione dell’art. 43 cod. pen. e un vizio di motivazione con riguardo all’elemento soggettivo. Si duole, in particolare, del fatto che, in relazione ad un’unica fattispecie di reato (le lesioni volontarie), la Corte abbia ritenuto la condotta sorretta, contemporaneamente, dalle tre forme conosciute di dolo, e che ciò abbia fatto scomponendo – arbitrariamente – la condotta a seconda dei momenti in cui si è esplicata ed ampliando – ancora una volta arbitrariamente – il concetto di “malattia”. Censura, poi la ricostruzione del dolo eventuale operato dalla Corte territoriale e la sua dimostrazione in via indiziaria, rimarcando che il dolo eventuale – come chiarito in recenti pronunce della Suprema Corte – non consiste nella accettazione del rischio ma nella accettazione dell’evento. Infine, richiama la giurisprudenza di legittimità affermatasi dal 2001 in poi, secondo cui il dolo di lesioni è incompatibile con la finalità terapeutica propria dell’atto medico.

6.2.2. Col secondo motivo lamenta – sotto il profilo del vizio motivazionale – che il giudice d’appello si sia discostato da quello di primo grado senza esibire una motivazione “rafforzata” e senza affrontare i nodi critici evidenziati dal giudice della sentenza riformata; nodi che riguardavano lo sviluppo diacronico dei fatti (il passaggio della paziente dall’Ospedale di Nuoro a quello di Sassari e la durata degli accertamenti, che palesavano, da soli, la gravità del male e i rischi cui la donna era esposta, ove non si fosse provveduto alla asportazione del meningioma), la valutazione delle indagini difensive e delle dichiarazioni dei familiari (che avrebbero confermato – tra le righe – di essere stati informati), gli esiti della perizia giudiziale (che avrebbe escluso la praticabilità di terapie alternative).

6.2.3. Col terzo ed ultimo motivo lamenta anch’egli la violazione dell’art. 442 cod. proc. pen. , per la mancata applicazione della diminuente di rito.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato, per le ragioni di seguito esposte.

1. Occorre premettere che il provvedimento impugnato è sorretto da una doppia ratio decidendi, che vanno esaminate separatamente. Agli imputati è contestato, infatti, sia di essere intervenuti su B.R. senza averla informata, preventivamente, dei rischi dell’intervento, sia di aver operato senza il rispetto delle leges artis. Mentre la prima imputazione rimanda ad una forma di responsabilità dolosa, la seconda prevede una responsabilità tipicamente colposa.

2. La prima problematica sollevata col ricorso attiene, dunque, alla possibilità di ravvisare il dolo di lesioni volontarie nella condotta del medico che ometta di informare adeguatamente il paziente circa i rischi dell’intervento chirurgico a cui lo sottopone e circa le alternative praticabili. In punto di fatto, le riflessioni che seguono poggiano sull’accertamento – effettuato dai giudici di merito e non censurabile in cassazione, per essere adeguatamente motivato e fondato sulla esaustiva elaborazione del materiale probatorio (comprese le testimonianze introdotte dalla difesa) – della inadeguatezza della informazione resa alla paziente. L’informazione doveva essere personale, preventiva e completa, tanto più nell’ipotesi – ricorrente nella specie – che si trattava di intervento altamente rischioso, da cui, anche in caso di completa riuscita, sarebbero comunque derivati, secondo quanto accertato in sentenza, postumi significativi. Invece, secondo quanto accertato dai giudici di merito, una informazione adeguata non fu assicurata, perchè parziale e indirizzata non già alla paziente, ma ai suoi familiari.
Tanto premesso, ritiene il Collegio che al primo quesito occorra dare, in via di principio – e salvo quanto in appresso si dirà per l’eventualità che l’omissione sia funzionale all’esecuzione di un intervento altrimenti illecito – risposta negativa.

3. E’ noto tutto il travaglio dottrinario e giurisprudenziale circa il ruolo del consenso – espresso o non espresso dal paziente – intorno all’atto medico cui è sottoposto o si sottopone.
A partire dalla innovativa sentenza del 21/4/1992, n. 5639, che sanzionò – a titolo di omicidio preterintenzionale – l’attività del chirurgo che sottopose il paziente, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo aveva informato preventivamente e che solo era stato da quegli consentito, ritenendo irrilevante sotto il profilo psichico – la finalità pur sempre curativa della sua condotta, numerose sono state le decisioni che si sono occupate delle conseguenze – sotto il profilo penale – dell’attività medica “arbitraria”, perchè svolta contro o senza la volontà del paziente, spesso divergendo sulla soluzione da prediligere.

Infatti, a meno di dieci anni dalla precedente pronuncia, la sezione quarta di questa Corte aveva – capovolgendo il precedente indirizzo – esclusa la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale qualora, in assenza di urgente necessità, fosse stata eseguita una operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne avesse determinato la morte, poichè, per integrare l’omicidio preterintenzionale, era richiesta una condotta consapevolmente ed intenzionalmente diretta a provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa (Cass., n. 28132 del 12/7/2001, che aveva ritenuto sussistente, nel caso esaminato, il diverso reato di omicidio colposo).
In senso ancora più liberatorio per il medico si era espressa la sezione prima con la sentenza n. 26446 del 29/05/2002, sul presupposto che il medico fosse sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorchè l’omissione dell’intervento potesse cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte (solo in caso di dissenso espresso la Corte aveva ritenuto configurabile – in caso di morte del paziente – il diverso reato di violenza privata). Indirizzo confermato da sez. 4, sentenza n. 11335 del 16/1/2008, sul rilievo che – a parte situazioni anomale e patologiche la finalità curativa comunque perseguita dal medico è da ritenere concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa invece necessaria per l’integrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dall’art. 584 cod. pen..

Sul punto sono poi intervenute, come è noto, le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 2437 del 18/12/2008), le quali hanno escluso la responsabilità del chirurgo – che abbia operato senza il consenso del paziente sia sotto il profilo della violenza privata che delle lesioni volontarie, a fronte di un esito fausto dell’intervento. Questa sentenza, che ha affrontato un caso parzialmente diverso da quello per cui è processo (caratterizzato, invece, da esito infausto), ha però sviluppato argomenti – già accennati nelle precedenti decisioni – che servono alla risoluzione della questione sottoposta all’attenzione del Collegio.

4. Le Sezioni Unite, con la sentenza sopra richiamata, hanno attuato il sostanziale recepimento – in sede penale – della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione della attività medica, “la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell’avente diritto, come definita dall’art. 50 c.p., quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito”.
L’attività sanitaria – ha precisato la Corte – proprio perchè destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute ed attuare la prescrizione contenuta nell’art. 2 della Carta, ha base di legittimazione “direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo”. Ne è prova il fatto – ha aggiunto la Corte – che l’art. 359 c.p. inquadra fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, ritenuta “di pubblica necessità”, cosicchè sarebbe davvero eccentrico che una professione siffatta abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico.
A tali riflessioni che il Collegio fa proprie – si aggiunge il rilievo che le scriminanti tipizzate – a cui si appellano le tesi imperniate sulla esclusivistica natura “liberatrice” del consenso – sono volte a neutralizzare gli effetti penali di condotte altrimenti illecite, perchè contrarie a norme di convivenza (come postulata dall’ordinamento), sicchè ancor più eccentrico appare il loro accostamento all’attività medica, che rappresenta una della massime espressioni del genio e della solidarietà umana, oltre che una della arti più nobili e utili all’uomo.

Da qui la prima conclusione che il trattamento medico-chirurgico – compiuto nel rispetto delle leges artis – costituisce un’attività intrinsecamente lecita, in quanto non offensiva dell’interesse protetto da alcuna delle norme incriminatrici contemplate dal nostro ordinamento, anche se, per attuarsi, abbisogna di “maltrattare” la persona che ad esso si sottopone, giacchè le incisioni (e le altre attività manipolatorie) praticate sulla persona del paziente sono connaturate, in maniera ineliminabile, all’attività chirurgica e perdono, nella valutazione unitaria dell’intervento, la loro carica lesiva, per essere funzionali alla cura del soggetto che vi si sottopone.

Gli effetti penali di questa scelta si traducono – nell’ordinario dell’attività terapeutica – nella esclusione dell’attività suddetta dalla tipicità delle lesioni personali o di altri reati; essa non abbisogna, per legittimarsi, nè di scriminanti nè di cause di esclusione della punibilità, anche se il concreto esercizio della stessa può essere subordinato, per l’attuazione di altri interessi ugualmente rilevanti, a condizioni e adempimenti prescritti da altre fonti.

4.1. Altro passaggio – che contrassegna, anch’esso, l’iter logico delle Sezioni Unite nella sentenza sopra richiamata – e che si appalesa utile alla risoluzione della re iudicanda, è costituito dalla definizione del concetto di “malattia”, che rileva, pur’esso, nella valutazione della condotta incriminata (sotto l’aspetto, che verrà esaminato nel prosieguo, della riconduzione dell’operato dei medici alla fattispecie delle lesioni personali volontarie).
Le Sezioni Unite, aderendo ad un più recente orientamento manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, hanno accolto, infatti, un concetto “funzionale” di malattia (necessario per la sussistenza del reato di cui all’art. 582 cod. pen., siccome evento naturalistico di detto reato), intesa come “processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo”, con la conseguenza che non sono state ritenute rilevanti – per l’integrazione del reato di cui all’art. 582 cod. pen. – le mere alterazioni anatomiche che non hanno interferenza con il profilo funzionale della persona. Hanno inoltre adottato un concetto “oggettivo” di malattia, disancorato dalla personale valutazione della vittima. A tale lettura dell’art. 582 cod. pen. il Collegio senz’altro aderisce, perchè si tratta di lettura aderente alla lettera e alla funzione della norma (volta a sanzionare le aggressioni più significative all’incolumità personale e a rimarcare la distanza dal reato di percosse, praticamente abrogato dall’interpretazione estensiva dell’art. 582 cod. pen. ) e perchè garantisce una oggettività necessaria al delitto di lesioni personali, esposto, altrimenti, a una forte soggettivizzazione (sarebbe rimessa alla vittima la decisione sulla esistenza della “malattia”, e quindi del reato, qualora la valutazione clinica divergesse dalla valutazione personale del paziente. Il reato di lesioni personali verrebbe posto a tutela non solo della incolumità personale, ma anche della libertà di determinazione, indebitamente inglobata nella oggettività giuridica delle lezioni personali).
Inoltre, tale lettura tiene conto degli apporti della giurisprudenza – richiamata nella stessa sentenza delle Sezioni Unite – più sensibile all’applicazione del principio costituzionale di colpevolezza.

La conseguenza, sul piano dell’attività medico-chirurgica “arbitraria”, di tale impostazione, è che, se una soluzione di continuo operata sul derma del paziente e sui suoi tessuti può integrare la nozione di “lesione”, ciò è ancora inconferente agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non consegua una alterazione funzionale dell’organismo. Ma è soprattutto sul terreno dell’elemento soggettivo che si apprezza il mutamento di prospettiva, giacchè contrariamente a quanto opinato dal giudice della sentenza qui impugnata – è in relazione alla “malattia” conseguente all’intervento chirurgico (assentito in modo viziato, per quanto si è detto) che va apprezzato l’atteggiamento psicologico dell’agente, al fine di individuare il nesso che occorre per l’imputabilità dell’evento.

4.2. Il riconoscimento di una fonte autonoma di legittimazione dell’attività medico-chirurgica (ut supra, sub. 4) non ha – ad ogni modo – impedito alle Sezioni Unite di sottolineare la necessarietà del consenso del paziente nel concreto espletarsi dell’attività suddetta. Attraverso il richiamo e l’analisi di numerose fonti di produzione normativa: la Costituzione (artt. 2 e 32), la legislazione sovranazionale (Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001; Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), la legislazione nazionale (L. 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati; L. 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; L. 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del servizio sanitario nazionale), il codice di deontologia medica, le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito – come già fatto dalla totalità della dottrina e della giurisprudenza – che il presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario risiede nella scelta, libera e consapevole – salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si sottopone.
Tanto perchè tutta la normativa sopra richiamata mostra di considerare la “persona” non più destinataria di prestazioni etero-determinate, ma soggetto attivo e partecipe dei processi decisionali che lo riguardano; e perchè appare ormai superata la visione del medico come depositario e detentore di una “potestà” di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) in termini di “alleanza terapeutica”, che veda entrambi i protagonisti impegnati a collaborare per l’attuazione del diritto alla salute.

5. Le conseguenze – sotto il profilo giuridico – di questa impostazione dogmatica non possono che essere rappresentate dalla tendenziale “illiceità” dell’atto medico compiuto senza il consenso del paziente (o con consenso viziato). La violazione di regole deontologiche e, prima ancora, legislative, quali sopra richiamate, rimanda sicuramente ad una responsabilità del medico per l’attività non assentita, perchè spezza il circuito virtuoso necessario al perseguimento del miglior risultato possibile per la salute del paziente. Ed infatti la giurisprudenza civile è consolidata nel ravvisare un inadempimento contrattuale a carico del medico che ometta di fornire un’informazione completa ed esaustiva intorno alla diagnosi effettuata, ai rischi cui il paziente è esposto, alle cure praticabili e alle possibili alternative terapeutiche, ponendo a carico del medico l’onere della prova di aver adempiuto all’obbligo relativo (Cass. Civ. n. 14642 del 14/7/2015, Rv 636428; Sez. 3, N. 2854 del 13/2/2015, Rv 634415; Sez. 3, N. 19731 del 19/9/2014, Rv 632440; Sez. 3, N. 27751 del 11/12/2013, Rv 628757; Sez. 3, N. 19220 del 20/8/2013, Rv 627861).

Ciò non vuol dire, però, che sia sempre ravvisabile – a carico dal sanitario – una responsabilità penale, per la semplice e ovvia ragione che il diritto penale è informato al principio di tipicità, per cui solo le condotte coincidenti con la previsione normativa possono assurgere a fonte di responsabilità.
Per la punizione del medico che attui un intervento “arbitrario” è quindi necessario che la sua condotta sia inquadrabile in una delle fattispecie penali tipizzate, che possono essere interpretate estensivamente, ma non analogicamente, e che la condotta imputata al medico sia offensiva proprio dell’interesse tutelato dalla norma penale. Pertanto, se è consolidata l’opinione che considera illecita, anche dal punto di vista penale, la condotta del medico che abbia operato – quasi in corpore vili – “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, “trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere” (Cass., n. 2437 del 18/12/2008, Giulini); e se è da ritenere illecita – anche dal punto di vista penale – la condotta del medico che attui una informazione volutamente lacunosa o decipiente al fine di perseguire scopi altrimenti illeciti (in questo senso, Cass., n. 21799 del 20/4/2010, Petretto, che ha sanzionato – a titolo di lesioni volontarie – il chirurgo che aveva praticato un intervento diverso da quello assentito, ingannando il paziente) – giacchè in questo caso egli si pone volontariamente fuori del contesto (terapeutico) entro cui è, per norma, legittimato ad operare – a conclusione diversa deve pervenirsi allorchè – come nella specie – il consenso all’intervento, prestato dal paziente in un ambito caratterizzato comunque da finalismo terapeutico, sia da ritenere viziato, perchè non preceduto da adeguata informazione.
Situazioni siffatte non appaiono inquadrabili, infatti, in nessuna delle fattispecie penali codificate.

Infatti, per quanto si vogliano estendere ed ampliare le nozioni di violenza e minaccia sottese all’art. 610 cod. pen., giammai è possibile ricondurre ad esse la condotta del medico che attui una informazione superficiale in vista di un intervento operatorio da lui consigliato, giacchè manca ad essa il connotato che più la caratterizza: la prospettazione di un male – la cui verificazione dipende dall’agente – o lo spiegamento di una energia fisica o morale diretta a coartare il volere della vittima.

Nemmeno può ravvisarsi – contrariamente all’opinione della Corte di merito – il reato di lesioni personali volontarie (aggravate, nella specie), giacchè tale reato presuppone – come è già stato evidenziato in fattispecie analoghe – una attività diretta a cagionare un male alla persona, da cui deriva una malattia nel corpo o nella mente. Richiede, cioè, secondo principi noti, che non occorre richiamare, il verificarsi – secondo quanto si detto sub. 4.1 – di una malattia (elemento oggettivo) e la coscienza e volontà di provocarla (elemento soggettivo, con le modulazioni proprie del dolo). Ebbene, è fuori discussione che il medico, allorchè agisce per fini terapeutici (e non per fini sperimentali, di lucro, di prestigio o per altri fini altrimenti speculativi), non pone in essere alcuna attività diretta a procurare un “male”, ma agisce (bene o male, non è questa la sede per discuterne) per risolvere una patologia. Egli – tanto più se è prudente ed esperto nella sua arte – “prevede” la possibilità di aggravare le condizioni del paziente (cioè, di procurargli una lesione di cui derivi una malattia, ulteriore rispetto a quella per cui è stato investito: elemento oggettivo del reato di lesioni), ma non la “vuole”; anzi, è disvolente rispetto ad essa ed opera perchè non si concretizzi.

Se, nonostante i suoi sforzi, la “malattia” sopravviene, non gli può essere imputata, in ragione della cattiva informazione fornita al paziente (è questo, infatti, il rimprovero che gli è mosso), perchè manca il rapporto di derivazione con l’addebito – essendo conseguenza dell’evoluzione del male, che egli non è riuscito a contrastare – e perchè manca un profilo di imputazione a livello soggettivo.

Non è, quindi, solo nella fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite (esito fausto dell’intervento) che l’assenza di consenso al trattamento terapeutico – non maliziosamente procurato – non è idoneo a fondare la responsabilità del medico a titolo di lesioni personali volontarie, giacchè è proprio il finalismo terapeutico che esclude il dolo di lesioni, per la logica incompatibilità tra essi esistente (perchè, come è stato messo in evidenza in altre pronunce e come le stesse Sezioni Unite hanno mostrato di condividere, “una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel “male”"). In questa maniera non si trasforma il reato di cui all’art. 582 cod. pen. , pacificamente a dolo generico, in reato a dolo specifico, come opinato nella sentenza impugnata e da taluni commentatori, giacchè la “specificità” attiene ai motivi dell’agere e agli scopi dell’agente, mentre, nella specie, la finalità curativa pone la volontà del medico in rapporto di contraddizione con l’evento tipico. Egli, infatti, non vuole nè accetta di procurare una “malattia”, anche se la prevede o può prevederla; opera ugualmente, per obbligo professionale e perchè “costretto” dalla natura del male che è chiamato a curare. In ciò sta, infatti, la fondamentale differenza tra il medico e qualsiasi volgare attentatore alla incolumità altrui: che il medico, chiamato a confrontarsi col male, non può sottrarsi all’obbligo di cooperare per risolverlo; il soggetto attivo nel reato di lesioni non è mosso da nessuna necessità (anzi, contravviene ad un obbligo di astensione) ed opera per infliggere una sofferenza (per questo, ogni energia da lui spiegata sul corpo o la mente della vittima gli è addebitabile e l’eventuale malattia che ne consegue rientra nel fuoco della volontà).

Deve convenirsi, pertanto, con quanto affermato in altre pronunce di questa Corte, secondo cui la valutazione del comportamento del medico sotto il profilo che qui interessa (sussistenza del reato di lesioni personali dolose) “non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso, non presentando il giudizio sulla sussistenza della colpa e sul nesso di causalità differenze di sorta a seconda che vi sia stato o meno il consenso informato del paziente”. Affermazione, questa, che il Collegio ritiene di sottoscrivere alla fondamentale condizione – più volte espressa e che qui viene ulteriormente rimarcata – che l’opera del medico sia inequivocabilmente sorretta da un “finalismo curativo” non inquinato da scopi e interessi diversi, come sono quelli rimarcati nella sentenza impugnata (scopi di lucro, di carriera, o sperimentali, che vanno – comunque – pur sempre provati), i quali, se sussistenti, inciderebbero proprio sulla fonte di legittimazione dell’attività medica.

6. La vicenda va poi esaminata sotto altro profilo, che è specifico di questo processo. A C. e Ca. non è contestato di aver operato contro la volontà di B.R., nè di averlo fatto senza il suo consenso, e nemmeno di averle fornito una informazione distorta circa le conseguenze dell’intervento e le alternative praticabili. Ai due è contestato di non aver fornito alla donna una informazione “adeguata” al livello del rischio cui la sottoponevano, posto che, comunque, una informazione – a quanto si desume dalla sentenza impugnata – era stata fornita (la B. era stata resa edotta circa la patologia – molto grave – da cui era affetta; le era stato detto – o fatto comprendere – che l’intervento era impegnativo, tant’è che i sanitari s’erano riservati di studiare meglio il caso e di procurarsi una strumentazione più adeguata). In ogni caso, B.R. sapeva certamente che si sottoponeva ad un intervento molto rischioso, posto che qualsiasi persona di normale intelletto sa che le operazioni al cervello – soprattutto se effettuate per rimuovere una massa tumorale -presentano tale caratteristica, anche se – di questo la sentenza impugnata dà adeguatamente conto – non le era stato spiegato che sarebbe potuta rimanere, subito, fortemente invalidata, nè le erano state prospettate le alternative praticabili.

E’ tenuto conto di tale condotta – di cui, peraltro, non è stata approfondita, in sentenza, la natura dolosa o colposa – che va valutata, nella specie, la configurabilità, in astratto, del reato di lesioni personali volontarie, previsto dall’ordinamento in tutt’altro contesto, per far fronte ad aggressioni alla persona di altra natura e di tutt’altra provenienza. Ora, non c’è dubbio che il grado di scostamento del medico dall’attuazione virtuosa dell’obbligo informativo presenti una decisiva rilevanza per l’individuazione dell’addebito che a lui è possibile muovere, giacchè – è di palmare evidenza e lo insegnano le Sezioni Unite – non possono essere messe sullo stesso piano – e non solo quando si tratta di graduare la pena – le condotte decipienti, quelle totalmente omissive, quelle che si contrappongono alla volontà del paziente e quelle che la attuano solo in parte, ovvero quelle che – come nella specie – si risolvono in informazione carente circa le conseguenze e le alternative all’intervento.
In quest’ultimo caso, invero, la “lontananza”, sotto l’aspetto oggettivo e soggettivo, della condotta tenuta in concreto rispetto a quella prevista per il reato di lesioni personali volontarie (o di omicidio preterintenzionale o addirittura volontario, nel caso B.R. fosse deceduta) è totale e non può essere colmata da sillogismi costruiti con l’impiego di norme e concetti tratti dalle diverse branche del diritto ( l’art. 582 cod. pen. tutela l’incolumità personale; l’incolumità personale è compromessa dall’atto medico; l’atto medico esige l’informazione di chi vi è sottoposto; l’informazione deve essere completa; la mancanza di completezza vizia il consenso; il consenso viziato è tamquam non esset; il medico risponde di lesioni personali volontarie), giacchè, in tal modo, viene superata la tipicità del reato per addivenire ad una costruzione che si discosta troppo – e in maniera troppo preoccupante sotto il profilo della certezza del diritto e del principio di legalità – dalla fattispecie legale: in pratica, il medico viene punito, in base a titoli di reato estremamente gravi, per aver omesso un’informazione, anche secondaria, su un aspetto dell’atto medico; e questo senza considerare che “l’informazione” da fornire è spesso racchiusa in volumi di scienza medica che il medico ha impiegato anni per digerire. E quanto sia concreto il problema è reso evidente dagli orientamenti della giurisprudenza civile, che hanno trovato eco nella sentenza impugnata allorchè si è trattato di definire i contenuti dell’obbligo informativo (secondo la giurisprudenza suddetta, il medico deve “fornire al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità ed eventuali conseguenze, sia pure infrequenti, col solo limite dei rischi imprevedibili, ovvero degli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’”id quod plerumque accidit”, in quanto, una volta realizzatisi, verrebbero comunque ad interrompere il necessario nesso di casualità tra l’intervento e l’evento lesivo”: Cass. Civ., n. 27751 del 11/12/2013). Soprattutto, non viene spiegato perchè i vizi del consenso, rilevanti in sede civile, siano trasferibili automaticamente nella materia penale, informata ai principi di personalità e di stretta legalità.

Tanto per sottolineare che, specie allorchè il rimprovero riguardi la deficienza informativa, la lontananza dalla fattispecie tipica è ancora più accentuata rispetto ai casi esaminati, finora, dalla giurisprudenza penale e che hanno determinato la presa di distanza delle Sezioni Unite dagli orientamenti più rigoristi, proprio per la mancanza di tipicità della condotta e per l’impossibilità di ravvisare il nesso psicologico, giuridicamente necessario, tra la condotta e l’evento.

7. Le Sezioni Unite, con la pronuncia più volte richiamata, hanno anche prospettato l’eventualità che – esclusa la configurabilità delle lesioni dolose possa residuare, in capo al sanitario, una responsabilità a titolo di colpa. In particolare, le Sezioni unite sembrano riconoscere uno spazio ai casi di cd. “colpa impropria”, che comprendono l’errore sulla esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo, e l’eccesso colposo nella commissione dei fatti che integrano una scriminante ( art. 59 c.p., u.c., e art. 55 c.p.).

Ora, a parte che tale eventualità si pone in contrasto con l’inquadramento del consenso come “condizione di liceità” dell’intervento chirurgico – e non come scriminante – fatto, sulla falsariga della pronuncia delle Sezioni Unite, all’avvio del discorso sulla responsabilità del medico per violazione dell’obbligo informativo, vale osservare che la colpa costituisce titolo di imputazione costruito per l’inosservanza di cautele doverose, che, se rispettate, avrebbero evitato il prodursi dell’evento dannoso. Ma l’obbligo d’acquisizione del consenso informato alla somministrazione del trattamento sanitario non costituisce una regola cautelare, trattandosi, viceversa, di obbligo imposto per consentire la partecipazione libera e consapevole del paziente al programma terapeutico che lo riguarda e dunque la sua inosservanza da parte del medico non può costituire, nel caso lo stesso trattamento abbia causato lesioni, un elemento per affermare la responsabilità a titolo di colpa di quest’ultimo, a meno che – come è stato rilevato – la mancata sollecitazione del consenso gli abbia impedito di acquisire la necessaria conoscenza delle condizioni del paziente medesimo (in questo senso, Cass. Pen., n. 21537 del 24/03/2015, Rv. 263495.
In applicazione di tale principio la Sez. quarta di questa Corte ha confermato la sentenza di condanna del medico per le lesioni gravi occorse alla paziente dovute anche all’omessa acquisizione del consenso informato, mancando il quale egli aveva modificato la metodica d’intervento originariamente concordata senza poter tenere conto delle patologie della paziente).
In ogni caso, va poi considerato, conclusivamente, che l’addebito a titolo di colpa condurrebbe verso il reato delineato dall’art. 590 cod. pen., pacificamente prescritto alla data del 18/5/2014.

8. Esclusa una responsabilità per violazione dell’obbligo informativo, rimane da scrutinare la motivazione in ordine all’ulteriore profilo di colpa ravvisato a carico degli imputati, imperniato sulla violazione delle leges artis. Si tratta di un profilo che, in imputazione, è rimasto assorbito dalla contestazione del più grave reato di cui agli artt. 582 e 583 cod. pen., ma che è stato trattato ampiamente nel corso del procedimento e rapidamente in sentenza, per la priorità del profilo informativo; comunque, gli imputati si sono puntualmente difesi anche in relazione ad esso.

Sul punto, la sentenza impugnata (pagg. 53 e segg.) ha censurato – sulla base della risultanze dell’indagine tecnica condotta dalla Commissione Interna e della Relazione peritale- sia la scelta di eseguire l’intervento di asportazione della massa tumorale in un centro – quello della Clinica Neurochirurgica di Sassari non attrezzata per tale tipo di intervento, sia la “caparbietà e l’ostinazione” con cui gli imputati si sono “accaniti” sul cervello della donna, nel tentativo di giungere alla base del tumore quando erano già “emerse le insormontabili difficoltà rappresentate dalla sua peculiare vascolarizzazione e dal pressochè costante e notevole edema”, con la conseguenza di provocare, già in questo modo, lesioni all’encefalo, che ne hanno ridotto fortemente la funzionalità.
Tali profili di colpa, solo genericamente contestati dagli imputati, conducono, essi sì, verso la fattispecie delle lesioni colpose, di cui all’art. 590 cod. pen. che, per quanto si è già detto, è prescritto.

9. In definitiva, esclusa la possibilità, per le ragioni sopra esposte, di ravvisare una responsabilità degli imputati a titolo di lesioni volontarie e constatata la intervenuta prescrizione del reato di lesioni colpose, ad essi contestato in fatto, la sentenza va annullata per intervenuta estinzione del reato.

P.Q.M.

Qualificato il fatto ai sensi del comma 2, seconda parte dell’art. 590 cod. pen. , annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2016

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