Il medico primario ed il responsabile della struttura sanitaria non possono invocare il principio dell’affidamento nell’operato degli altri sanitari dell’equipe cui il paziente è pure affidato – Cassazione Penale, Sez. IV, 31 gennaio 2014 n. 4985

In tema di colpa professionale, non possono invocare il principio dell’affidamento nè il primario, nè il responsabile della struttura sanitaria, atteso che entrambi sono tenuti, nell’ambito dei rispettivi ruoli, ad un compito di supervisione nello svolgimento del quale non ci si può passivamente “affidare”, dovendosi invece instaurare un rapporto critico-dialettico con gli altri sanitari, tanto più quando il caso si rivela per qualunque ragione di problematica risoluzione. [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino – Presidente -
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere -
Dott. MARINELLI Felicetta – Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco M. – rel. Consigliere -
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: P.S. N. IL (OMISSIS); PI.TO. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 959/2010 CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA, del 19/10/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/01/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROCCO MARCO BLAIOTTA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. POLICASTRO Aldo che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito, per la parte civile, l’avv. Crea e Sorace che hanno chiesto il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori avv. Krog, Placanica, Romeo e Scrivano che hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. A seguito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Palmi ha affermato la responsabilità degli imputati in epigrafe in ordine al reato di omicidio colposo in danno di S.A.; e li ha altresì condannati al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili. La sentenza è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha ridotto le pene.
Secondo quanto ritenuto dei giudici di merito, la paziente S. che si trovava nel terzo mese di gravidanza ed era assistita dal ginecologo dott. P. manifestò malessere che comunicò telefonicamente al sanitario ricevendo rassicurazioni.
Il giorno 25 febbraio ebbe luogo una visita cui seguirono gli esami ematologici e delle urine, che evidenziarono un valore del glucosio molto superiore a quello normale.
Il medico diede ulteriori rassicurazioni ma il malessere, costituito da nausea e vomito, non cessò, sicchè il terapeuta, il giorno seguente, dispose il ricovero nella clinica privata nella quale prestava servizio.
Il successivo 27 febbraio furono eseguiti vari esami e fu ripetuta l’analisi del sangue che evidenziò valori della glicemia e della glicosuria elevatissimi. Tali dati si coniugavano non con una sintomatologia marcata, come sete, richiesta di bevande zuccherate e bisogno di urinare. Il P., anche in tale contesto, diede assicurazioni.
Sebbene la condizione della donna peggiorasse i diversi medici che si alternarono tennero un atteggiamento noncurante.
Il successivo 2 marzo la condizione della paziente divenne drammatica, iniziò a delirare, entrò in stato comatoso e il test glicemico indicò un valore altissimo. Fu disposto l’immediato ricovero presso l’ospedale di (OMISSIS). Qui fu immediatamente diagnosticato coma diabetico.
Il giorno seguente la giovane donna venne meno dopo aver perso spontaneamente il feto.
Dall’indagine peritale è emerso che la morte è stata determinata da disfunzione multisistemica da scompenso metabolico in soggetto in coma dovuto a diabete gestionale del primo trimestre.
Alla stregua di tali acquisizioni è stata ritenuta la responsabilità colposa degli imputati per non aver diagnosticato una patologia facilmente individuabile, omettendo così i trattamenti medici necessari che sicuramente l’avrebbe salvata.
Ricorrono per cassazione gli imputati.

2. P. propone due motivi.

2.1 Con il primo si censura la pronunzia per ciò che attiene al diniego delle attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6. Si espone che l’imputato ha versato nell’immediatezza dei fatti la consistente somma di 500.000 Euro in favore degli eredi della vittima. La Corte territoriale ha escluso che tale offerta reale potesse essere ritenuta ristoratrice del danno, da intendersi nel senso civilistico, considerata la non congruità della somma.
Senza alcuna motivazione la stessa Corte ha ritenuto sprovvista di prova l’altra opzione prevista dalla norma richiamata, afferente al fatto di essersi adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose del reato.
Si è trascurato che il ricorrente si è subito attivato per attenuare, per quanto possibile, le immediate conseguenze derivanti dall’evento corrispondendo la somma indicata; ed ha altresì sollecitato le assicurazioni a tal fine coinvolte. Tale comportamento appare finalizzato alle attenuazione delle immediate sofferenze degli aventi causa e può dunque costituire ragione giustificatrice della concessione della circostanza di cui si discute, essendosi sicuramente in presenza di persone non connotata da capacità criminale.

2.2 Con il secondo motivo si deduce che erroneamente ed illogicamente sono state negate le attenuanti generiche. La Corte ha posto enunciazioni di carattere negativo, che tuttavia hanno portata generale e non sono focalizzate sulle peculiarità che caratterizzano l’imputato ricorrente, determinando un appiattimento delle posizioni.
Sono stati trascurati dati di marcato positivo rilievo, come la immediata ammissione delle proprie responsabilità, l’attingimento ai propri risparmi di una vita per sovvenire alle esigenze dei congiunti della vittima, la sospensione del rapporto di lavoro con la struttura sanitaria nella quale avvennero i fatti, quale esito di persistente stravolgimento emotivo, infine l’incensuratezza, oltre alla parziale riparazione del danno. A fronte di tali significativi elementi di giudizio da prendere in esame, la pronunzia viene ritenuta logicamente criticabile e non conforme alla portata della disciplina legale.

3. Pi. propone, tramite i difensori, due ricorsi. Il ricorso dell’avv. Scrivano propone diversi motivi.

3.1 Con il primo motivo si denunzia la mancata corrispondenza tra la contestazione ed il fatto ritenuto ai fini dell’affermazione di responsabilità. In imputazione si fa riferimento a condotta omissiva consistita nell’aver trascurato qualsiasi forma di controllo o di esame della cartella clinica e qualsiasi tipo di visita nei confronti della paziente, mentre l’affermazione di responsabilità è stata fondata su una distinta condotta di tipo commissivo, caratterizzata da negligenza ed imperizia consistita nell’avere più volte visitato la paziente in maniera così superficiale ed imperita da non avvedersi delle sue reali condizioni cliniche. Erroneamente la corte di merito ha dilatato oltre misura la portata letterale dell’imputazione pervenendo così a ritenere l’identità del fatto.

3.2 Con il secondo motivo si censura la pronunzia per ciò che attiene all’attribuzione all’imputato di dichiarazioni sostanzialmente confessorie. La Corte d’appello ha apprezzato solo parzialmente il contenuto dell’interrogatorio del ricorrente, estrapolandone poche frasi che sono state frammentariamente valutate in modo avulso dall’apparato complessivo. Alcune delle frasi riportate in sentenza sono state in realtà pronunziate dal giudice.
Dal tenore complessivo dell’interrogatorio emerge che il Pi. ha costantemente ribadito di non ricordare la paziente e di averla vista e non visitata una sola volta durante i pochi giorni nei quali fu di turno in clinica. Pertanto l’attribuzione all’imputato della presenza in reparto nei giorni 27, 28 e 29 febbraio è erronea, giacchè emerge che il ricorrente fu pressochè continuamente impegnato in sala operatoria. Nè conforto alla tesi accusatoria perviene dalle testimoni indicate in sentenza, che mai hanno fatto riferimento nominativo all’imputato.

3.3 Il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione al ritenuto rapporto causale. Il giudizio si basa sulla consulenza dell’esperto nominato dal pubblico ministero che compie una valutazione di carattere generale senza mettere a fuoco le singole posizioni. Si è in particolare trascurato che l’imputato cessò il servizio intorno alle 13 del giorno 29 febbraio per un periodo di ferie, rientrando in servizio dopo che la vicenda sanitaria si era tragicamente conclusa. I consulenti di parte hanno dimostrato che in tale momento il quadro clinico della paziente non deponeva pacificamente per la patologia che successivamente ne ha determinata la morte; e comunque al 29 febbraio le condizioni della donna erano non gravi e perfettamente reversibili. Tale valutazione degli esperti di parte non sono state minimamente prese in esame nè dal tribunale nè dal giudice d’appello che, in particolare, con insanabile deficit motivazionale ha affermato che la consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero non risulta contraddetta da alcuno.

3.4 Il quarto motivo attiene al diniego delle attenuanti generiche.
Si lamenta che il giudice di merito si è basato su valutazioni altamente negative in ordine al comportamento terapeutico dei sanitari che sono tuttavia generiche e non focalizzate sui singoli agenti.
In particolare, per ciò che riguarda il ricorrente, non si è considerato che egli ebbe un ruolo limitato nei fatti e lasciò la clinica in un’epoca in cui la condizione della paziente non era ancora degenerata. Si è pure trascurato che il Pi. in quel periodo era coinvolto in numerose urgenze sanitarie, tutte felicemente fronteggiate nella sua qualità di primario e con attività tenuta prevalentemente in sala operatoria.
Si è pure trascurato di valutare la personalità dell’imputato, ultrasessantacinquenne, assolutamente incensurato, autore di innumerevoli interventi chirurgici.
E’ stata infine omessa la considerazione del favorevole comportamento processuale, visto che la responsabilità è stata basata su dichiarazioni sostanzialmente confessorie.

3.5 Il quinto motivo attiene al diniego delle circostanze di cui all’art. 62 c.p., n. 6. Nel giudizio di secondo grado è stata prodotta copia di quietanza di versamenti per complessivi 800.000 Euro da parte delle società assicuratrici obbligate al risarcimento; e si è pure trascurato il comportamento tenuto volontaristicamente dal ricorrente dopo il fatto.

4. L’altro difensore di Pi. propone a sua volta diversi motivi.

4.1 Con il primo motivo si lamenta che i giudici di merito hanno omesso di valutare la vicenda alla luce del principio di affidamento ripetutamente affermato sia in giurisprudenza che in dottrina. Alla luce di tale principio erroneamente il ricorrente è stato ritenuto responsabile delle inadempienze ed omissioni poste in essere dai colleghi, basandosi solo sul suo ruolo apicale all’interno della struttura sanitaria. La pronunzia è contraddittoria in quanto si afferma che il sanitario non ha visitato la paziente per sottostima della patologia e che egli non può richiamarsi al principio di affidamento perchè versava in una situazione di colpa avendo confidato che altro collega subentrato nella posizione di garanzia ponesse rimedio alle precedenti omissioni.

4.2 Altro motivo attiene al nesso causale. Si evocano i principi in materia e si lamenta che non si è tenuto conto della causa alternativa prospettata dalla difesa, connessa alla somministrazione di un farmaco denominato Largactil. A fronte di tali deduzioni difensive, senza ragione si è rifiutata la riapertura dell’istruttoria dibattimentale per il conferimento di un nuovo, necessario incarico peritale.

4.3 Ulteriore censura attiene alle deposizioni testimoniali valorizzate dalle pronunzie di merito in ordine all’attività svolta dall’imputato, trascurando che nessuna delle testi ha mai fatto chiaro ed espresso riferimento al nominativo del dr. Pi.. In sostanza, non risultano comportamenti realmente omissivi e la causalità non è dimostrata oltre il ragionevole dubbio, anche con riguardo alla ricostruzione alternativa in ordine all’evento cui si è fatto prima cenno.

4.4 Distinto motivo censura il diniego delle attenuanti generiche. Si è trascurato che l’imputato ha tenuto un corretto comportamento processuale.

4.5 Si lamenta infine il diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6. La Corte territoriale ha completamente trascurato un dato fattuale di notevole importanza costituito dall’avvenuto risarcimento del danno e cioè dal pagamento di una cospicua somma ai familiari della vittima da parte delle società assicuratrice, risarcimento di cui si è data prova documentale. Tale somma è da ritenersi sicuramente congrua e costituisce l’epilogo di una complessa procedura liquidativa che l’imputato ha fattivamente e direttamente seguito e determinato proprio per elidere o attenuare le conseguenze del reato. D’altra parte, il comportamento riparatorio, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, può anche concretarsi nell’aver stipulato un’assicurazione per salvaguardare la copertura dei danni derivanti dall’attività pericolosa.

5. I ricorsi sono infondati.

Le pronunzie di merito esprimono un giudizio altamente negativo nei confronti del P. evidenziandone la totale assenza di perizia e prudenza.
Analogo addebito viene mosso nei confronti del Dott. Pi., responsabile della struttura sanitaria in questione, sia per aver omesso la doverosa supervisione del caso clinico in esame, sia per aver mancato ai suoi doveri professionali nel corso dei suoi turni di servizio nei giorni 27 28 e 29 febbraio.
A proposito di tale ultimo imputato, rispondendo alle deduzioni, difensive la Corte di merito afferma che il sanitario nel corso dell’interrogatorio ha confermato di aver effettuato turni di servizio nelle mattinate del 27 28 e 29 febbraio.
Tali dichiarazioni costituiscono un riscontro a quanto dichiarato da diversi testimoni i quali, pur non facendo il nome del medico, hanno fatto riferimento al sanitario presente al giro delle visite. In sostanza, da tali deposizioni emerge che l’imputato ha visto la paziente, è entrato in relazione con costei ma non ha ritenuto di sottoporla a visita approfondita o comunque a valutarne il quadro diagnostico.
E’ lo stesso medico ad ammettere di non aver visionato la cartella clinica.
Dunque, non è vero che il ricorrente non ha materialmente visto la paziente: egli non la ha esaminata approfonditamente per una sua scelta professionale dovuta alla evidente sottostima della sintomatologia riferita dal paziente.
In tale situazione la Corte d’appello ritiene che non vi sia stata alcuna irregolarità nella contestazione che fa riferimento alla mancanza di controllo della paziente e di esame della cartella clinica; e che perfettamente corrispondente ai fatti come accertati dal primo giudice.

Tali valutazioni si coniugano con quelle, severe, espresse dal primo giudice a proposito del non corretto esercizio del ruolo apicale da parte del Pi., per ciò che attiene all’organizzazione del reparto di ostetricia e ginecologia.
La Cartella clinica ed i rilievi anamnestici furono istituiti solo il 2 marzo, quando la situazione era precipitata. Prima di allora nessuna annotazione, nessuna documentazione che potesse servire per orientare l’attività terapeutica. Il reparto non costituiva di fatto una compagine di sanitari ma il luogo di copresenza di medici che erano delle monadi; senza, quindi che avvenisse alcun consulto o si esplicasse alcuna cooperazione.
Questo, secondo il Tribunale, spiega il fatto che la paziente sia stata lasciata in balia delle cure inappropriate del P., mentre gli altri sanitari ed il primario in particolare si disinteressarono del caso.

Quanto al nesso eziologico la Corte considera che già all’esito degli accertamenti effettuati il 27 febbraio i medici erano in possesso di tutti gli elementi di giudizio che consentivano il corretto inquadramento diagnostico e conseguentemente terapeutico del diabete gestazionale da cui la paziente era affetta.
Il caso era di modesta difficoltà interpretativa, richiedeva una qualificazione scientifica minima, sono stati esclusi altri fattori che potessero influire in qualche misura sul determinismo causale, la terapia appropriata era agevole ed efficiente ed avrebbe assicurato la certa sopravvivenza della gestante.
La diagnosi in questione sarebbe stata possibile anche semplicemente attraverso un colloquio con la paziente, che avrebbe consentito di cogliere sintomi non equivoci come il senso di sete e la ricorrente diuresi.

Quanto alla posizione del Pi., la circostanza che gli sia stato assente dal servizio a decorrere dal giorno 29 febbraio viene ritenuta priva di rilievo. La sintomatologia era presente già all’inizio del ricovero e qualunque comportamento terapeutico appropriato avrebbe consentito la diagnosi e la terapia appropriata; sicchè pure la condotta di tale sanitario rileva sotto ogni punto di vista.

La chiarezza del quadro clinico, d’altra parte, esclude la necessità di riapertura dell’istruttoria dibattimentale per il conferimento di un incarico peritale, essendosi in presenza di valutazioni esaustive e non contraddette.
La stessa causa alternativa adombrata dalla difesa, costituita dalla somministrazione di un farmaco denominato Largactil non risulta munita di alcun appiglio scientifico. E sarebbe comunque un dato irrilevante posto che tale farmaco è stato somministrato solo (OMISSIS), cioè quando la situazione era ormai precipitata e l’innalzamento dei valori del gruppo era giunto ad oltre 1600.

La Corte d’appello ritiene pure prive di pregio le deduzioni che invocano il principio di affidamento. Si afferma che è principio che costante che nessuno può invocare l’esonero da responsabilità confidando che altri provveda a correggere il proprio errore.
Pertanto la circostanza che la paziente fosse affidata al dottor P. non esonerava il dr. Pi. dal prendersene a sua volta cura soprattutto in considerazione del fatto che egli, nella qualità di primario, aveva avuto modo, durante il giro delle visite, di prendere cognizione del suo stato di salute e di agire di conseguenza.

Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale considera in primo luogo che non vi sono i presupposti per la concessione delle attenuanti generiche alla luce della condotta tenuta durante il ricovero della paziente, il disinteresse manifestato in quel frangente, la presunzione palesata di fronte ai dati riferiti, il mancato ascolto e la sottovalutazione dei sintomi, lo spregio manifestato all’indirizzo dei familiari che sollecitavano l’intervento dei terapeuti.
La condotta in questione viene valutata in termini assolutamente negativi proprio perchè posta in essere da professioni che erano tenuti a rapportarsi alla paziente con particolare benevolenza.

E’ pure esclusa la possibilità di concedere l’attenuante del risarcimento del danno. Il primo giudice ha correttamente individuato le distinte due situazioni evocate dall’art. 62 c.p., n. 6 e cioè l’integrale riparazione del danno mediante il suo risarcimento o l’essersi adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuarne le conseguenze dannose del reato.
Per quel che concerne l’offerta reale di 500.000 Euro da parte del dottor P., si ritiene che essa non sia stata satisfattiva considerato che l’evento riguarda una donna di soli 24 anni che portava in grembo il figlio e che ha lasciato marito e prossimi congiunti.
Parimenti sprovvista di prova è l’altra opzione, posto che il giudice di prime cure da atto della circostanza che vi sono state varie riunioni tra le parti, che non hanno sortito alcun effetto tanto che all’atto della pronunzia della sentenza d’appello l’integrare risarcimento nei confronti delle parti civili non è stato corrisposto. E tuttavia la pena inflitta dal primo giudice è stata ritenuta eccessiva ed è stata conseguentemente ridotta.

6. Tale complessa, articolata, puntuale e razionale giustificazione della decisione si sottrae alle indicate censure.

6.1 Vanno in primo luogo esaminate le censure di Pi. che direttamente o indirettamente impingono nel tema della responsabilità.

Orbene, correttamente la Corte di merito spiega che non vi è stata alcuna immutazione dell’imputazione: al Pi. è stato sempre contestato di non essersi dedicato alla paziente, di non averla esaminata, di averla solo osservata di sfuggita, nonostante egli fosse tenuto, nella sua duplice veste di medico di turno e di responsabile del reparto, ad esercitare pienamente la funzione terapeutica nei confronti della paziente. Tale trascuratezza ha correttamente fondato la responsabilità.

6.2 Pure immune da censure è l’apprezzamento sul ruolo del Pi..
La Corte spiega correttamente che diversi testi, sia pure non nominativamente, hanno riferito della presenza distratta dei medici di turno e quindi anche del ricorrente.
Il Pi. tenta impropriamente di sollecitare questa Corte alla riconsiderazione del merito: operazione non consentita e neppure utile nel caso in esame, posto che, come è stato accennato e sarà ancora esposto nel prosieguo, la veste di primario del reparto giustifica da sola la ritenuta responsabilità.

6.3 Palesemente priva di pregio è, poi, l’argomentazione in ordine al nesso causale. In base ai più consolidati principi in tema di causalità condizionalistica è agevole considerare, ribadendo l’argomentazione della Corte d’appello, che la patologia si rivelava in modo conclamato già all’atto del ricovero e poi, in modo crescente, nei giorni seguenti. Ne discende che se il Pi. avesse fatto fronte ai suoi doveri professionali, ben avrebbe potuto correttamente diagnosticare la patologia, trattarla ed evitare il coma letale. Null’altro occorre aggiungere per dimostrare il nesso causale.

6.4. Pure inconferente appare il richiamo al principio di affidamento. Il primario era tenuto a ruolo di supervisione nei confronti degli altri terapeuti presenti nel reparto, anche quando i pazienti erano ad essi affidati. E’ evidente, che dovendo supervisionare, non ci si può passivamente affidare ma occorre instaurare un rapporto critico-dialettico con gli altri sanitari, tanto più quando il caso si rivela per qualunque ragione di problematica risoluzione.

6.5. Davvero singolare è poi l’argomento afferente alla somministrazione del Largactil. Ciò è avvenuto, forse, come spiegato in sentenza, quando già la paziente era allo stremo e si era in vista del coma: ipotizzare che tale contingenza spieghi l’evento significa travolgere arbitrariamente le ponderose acquisizioni probatorie, anche autoptiche, che hanno ricondotto la morte alla macroscopica iperglicemia. In tale evidente situazione, del tutto razionalmente i giudici di merito hanno rifiutato, perchè inutili, gli approfondimenti istruttori proposti.

6.6 quanto alla questione afferente all’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, proposta da ambedue gli imputati, è sufficiente evocare la costante condivisa giurisprudenza di questa Suprema corte.
La circostanza attenuante dell’attivo ravvedimento di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 6, seconda parte, – che contempla l’ipotesi dell’essersi prima del giudizio ed al di fuori del caso preveduto dall’ultimo capoverso dell’art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato – si riferisce a conseguenze del reato che non consistano in un danno patrimoniale o non patrimoniale, economicamente risarcibile, ai sensi dell’art. 185 cod. pen., (da ultimo Sez. 5, 16/04/2009, Rv. 245137).
Ed in effetti sarebbe irrazionale promettere il premio dell’attenuante nel caso di tempestivo, integrale risarcimento del danno e poi concedere lo stesso beneficio a chi si sia solo adoperato con esito non risolutivo sul piano patrimoniale.

6.7 Infine, quanto al diniego delle attenuanti generiche, i giudici di merito compiono un apprezzamento in fatto preciso, che costituisce esplicazione della discrezionale ponderazione loro demandata dalla legge.
Essi hanno rimarcato con accenti inusualmente severi la straordinaria gravita della colpa. Tale valutazione è perfettamente adeguata alla condotta del P. di cui si è detto sopra.
Occorre considerare a tale riguardo che le sentenze di merito mettono in luce non solo la gravissima imperizia rivelatasi nel non diagnosticare una banale, ricorrente patologia in presenza di chiari referti analitici e di sintomatologia conclamata e non equivoca. Si aggiunge qualcosa di più: il disinteresse sostanziale nei confronti della sorte della vittima, un atteggiamento distratto, distaccato oltre misura, che rompe l’alleanza insita nella relazione terapeutica.

Qui, più che la perizia è in questione la diligenza che, per chi esercita una funzione tanto alta deve essere massima.
Ciò spiega il giudizio di implicita prevalenza dell’indicato tratto negativo della vicenda, pur a fronte di comportamenti non privi di note positive, come il parziale e quasi immediato ristoro del danno patrimoniale dei congiunti della vittima. Ne discende che tale ponderazione non viola la legge e non è neppure illogica, sicchè non può essere posta in discussione nella presente sede di legittimità.

Discorso non dissimile può esser fatto per Pi.. Egli pure, nella veste di supervisore del reparto, era tenuto ad interessarsi al dramma della donna che nel giro di pochi giorni si andò spegnendo in un coma irreversibile. Anche qui la trascuratezza, la negligenza travolge le note positive, con apprezzamento in fatto immune da errori metodologici e quindi non più sindacabile. A ciò possono pure aggiungersi le severe note negative, cui si è sopra fatto cenno, in ordine alla criticabile gestione del reparto.

I ricorsi vanno quindi rigettati. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese delle parti civili che appare congruo liquidare come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili per questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 2500,00 oltre accessori come per legge in favore della parte civile C. D.; e in Euro 3.500,00 oltre accessori come per legge in favore dell’altra parte civile costituita in persona di S. G., M.G., S.R. e S.S..

Così deciso in Roma, il 7 gennaio 2014.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2014

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