A margine degli articoli dell’On. Vietti (7 agosto 2013) e del Saggio Panebianco (6 agosto 2013) [Armando Argano - 8-8-2013]

Se avessi scritto io ciò che hanno scritto, sul Corriere della Sera, Panebianco prima (6 agosto 2013) e Vietti in risposta poi (7 agosto 2013), gli eventuali lettori giustamente mi avrebbero riso dietro.
L’autorevolezza dei pulpiti, infatti, non salva i due interventi, che lasciano costernati per inconsistenza tecnica e cerchiobottismo.

Tuttavia, nella fiera dell’ovvietà balneare, direi che Vietti batte Panebianco di varie lunghezze.

Il politologo svela la fatidica acqua calda, affastellando alcune sintetiche e stantìe proposte di riforma della giustizia, suggerendo, in parallelo, di intervenire sullo squilibrio di potere istituzionale, che oggi vede la magistratura assai più solida della politica, mediante riforme che rafforzino quest’ultima.
A nessuno sfuggirà che si tratta di temi ultraventennali ed irrisolti dalle (pseudo)riforme pure nel frattempo varate, ma tutto sommato Panebianco – sarà l’età – scrive con un certo naftalinico buon senso che impedisce di dargli del tutto torto.

Vietti, dal suo canto, si conferma campione imbattuto nella difficile arte del gattopardesco equilibrismo istituzionale: da uomo politico guardacaso bacchetta la politica (tanto nessuno si offende), liscia il pelo alla Magistratura (appunto il potere forte) e apoditticamente coinvolge la colpevolezza di “accademia e foro” (cioè gli avvocati).
Vietti, dunque, non si fa – e non ci fa – mancare nulla.

Eppure nè lui, né Panebianco, affrontano il problema di fondo: in giro per l’Italia ci sono tanta ottima Magistratura e tanta buona politica, che vivono ed operano ragionevolmente separate, salvo laddove gli interessi in contesa sono di così grande rilevanza che i due poteri dello Stato hanno la possibilità di condividerne i risultati.
In tal caso, non solo si palesano i limiti di ciascun essere umano, ma tutto diviene inesorabilmente “politica” (e non nel senso evocato da Thomas Mann).
D’altra parte non esistono forse nella stessa Magistratura associazioni e addirittura correnti diverse?

In punto di riforme sono assolutamente pessimista perchè, invero, sarebbe necessario mettere mano innanzitutto alla riforma culturale dei cittadini, soprattutto di quelli che, come generalmente gli italiani (non me ne vogliano i rispettosi), si dedicano professionalmente alla violazione delle regole, anche delle più minute: non intendo ovviamente incagliarmi nella filosofia sociologica, ma è un punto che, rimanendo scevri da inefficaci moralismi, bisognerà prima o poi affrontare seriamente.

Dovendosi infine pur fare qualcosa sul piano più immediatamente operativo, mi pare che urga una complessiva semplificazione di tutte le regole, affinchè siano reperibili ed intellegibili, in una parola “certe”.
Nel settore giustizia urgono quindi unificazione e semplificazione dei riti (in particolare in quella civile, ma non solo), aumento degli stanziamenti per strutture e personale, separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti (senza assoggettamento di questi ultimi all’esecutivo), revisione territoriale dell’organizzazione giudiziaria, qualità del servizio e non massimizzazione dei risultati statistici.
Nulla di nuovo, certo, ma se hanno detto ovvietà Panebianco e Vietti, chi altri potrebbe fare di meglio, pardon, di peggio?
Vorrei allora permettermi anche io, come l’illustre vicepresidente del CSM, un post scriptum: per il bene della Magistratura, che diventa virtuosamente bene della giustizia e quindi della collettività, vorrei tanto che molti Giudici la smettessero di rendere interviste e spettacolarizzare il loro lavoro. Sarebbe anche la miglior forma di rispetto per tanti loro colleghi che davvero, nel silenzio dei loro uffici, faticosamente danno genuina tutela ai diritti dei cittadini.

(Armando Argano – 8 agosto 2013)

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