Bancarotta e responsabilità del soggetto esterno alla struttura sociale – Cassazione Penale, Sez. V, 10-01-2014 n. 628

In tema di reati fallimentari, nell’ipotesi di fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione e con riferimento alla posizione dell’extraneus in reato proprio dell’amministratore di società, si deve ritenere che il soggetto esterno alla struttura sociale possa sicuramente commettere il reato sia direttamente, attraverso la propria attività contraria alla tutela della par condicio creditorum, sia, in caso di fallimento, mediante condotta agevolativa di quella dell’intraneus e di consapevole supporto alla distrazione (intesa quest’ultima come sottrazione dal patrimonio sociale e suo depauperamento ai danni della classe creditoria), fermo restando che nel caso di azione “combinata” di più soggetti, la consapevolezza del partecipe extraneus deve abbracciare le varie condotte ed i reciproci loro nessi, protesi al raggiungimento dell’evento conclusivo (la Corte ha tuttavia precisato che, in base al novellato art. 2639 cod. civ., con riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione ovvero per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, l’ “amministratore di fatto” è assolutamente equiparato all’ “amministratore di diritto”, ivi compresa l’ipotesi di colpevole e consapevole inerzia ai sensi dell’art. 40 comma 2 c.p., mentre non altrettanto può dirsi nel caso di bancarotta patrimoniale o per distrazione, poichè il mancato ed ingiustificato reperimento di beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito non legittima la presunzione di dolosa sottrazione, atteso che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto). [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FUMO Maurizio – Presidente -
Dott. BRUNO Paolo A. – Consigliere -
Dott. SABEONE Gerardo – rel. Consigliere -
Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere -
Dott. MICHELI Paolo – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: D.C.R. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 6273/2008 CORTE APPELLO di MILANO, del 03/04/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/10/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GERARDO SABEONE;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GALASSO Aurelio che ha concluso per l’annullamento con rinvio limitatamente a interdizione dai P.U.; rigetto nel resto.
Udito il difensore avv. Di Salvatore Cesidio.

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 3 aprile 2012, ha quasi integralmente confermato, eliminando il reato di appropriazione indebita estinto per prescrizione, la sentenza del GIP presso il Tribunale di Varese del 27 marzo 2008 mantenendo ferma la condanna di D.C.R., quale amministratore di fatto della s.r.l. Edil Project dichiarata fallita il (OMISSIS), per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale aggravato dalla pluralità dei fatti e in concorso con l’amministratore di diritto della suddetta società.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, il quale lamenta:
a) una violazione di legge e la illogicità manifesta della motivazione in merito all’assoluta genericità ed indeterminatezza del capo d’imputazione;
b) una violazione di legge in merito alla mancata presenza nel dispositivo del rigetto delle eccezioni formulate in prime cure, rigettate con ordinanza 13 dicembre 2007 e ribadite nel giudizio di appello;
c) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito all’accertamento della penale responsabilità per i contestati fenomeni distrattivi;
d) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito all’affermazione della penale responsabilità sulla base della qualifica di amministratore di fatto della società;
e) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito alla prova dell’accertata bancarotta fraudolenta documentale;
f) una violazione di legge e una motivazione illogica quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed alla eccessività della pena irrogata;
g) una violazione di legge in merito all’applicazione delle sanzioni accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale per la durata di anni dieci e dell’interdizione dai pubblici uffici e quella legale.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è parzialmente meritevole di accoglimento.

2. Giova premettere, in punto di diritto, come in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trovi dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento possa essere rilevato in sede di legittimità, ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (v. Cass. Sez. 4 10 febbraio 2009 n. 20395).
Inoltre, in tema di sentenza di appello, non sussiste mancanza o vizio della motivazione allorquando i Giudici di secondo grado, in conseguenza della completezza e della correttezza dell’indagine svolta in primo grado, nonchè della corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo Giudice.
Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (v. Cass. Sez. 2 15 maggio 2008 n. 19947).
La sentenza di merito non è, poi, tenuta a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. Cass. Sez. 4 13 maggio 2011 n. 26660).

3. Il primo motivo di ricorso è del tutto pretestuoso, perchè la mera lettura del capo d’imputazione, così come riportato all’inizio dell’impugnata sentenza, vale ad eliminare ogni preteso profilo d’indeterminatezza delle ascritte condotte.
Osserva il Collegio che le condotte di sottrazione, distruzione e falsificazione sono alternativamente previste dalla norma di cui all’art. 216 L. Fall., così che non integra violazione del principio di correlazione tra sentenza e contestazione (quando quest’ultima contenga la descrizione, sia pur sommaria, del comportamento dell’imputato) la decisione del Giudice di merito che, stabilendo che i fatti addebitati all’imputato non sono ascrivibili all’una categoria, ne affermi comunque la responsabilità, ritenendo che essi integrino altra diversa ipotesi fra quelle previste (v. Cass. Sez. 5 6 luglio 2000 n. 9027).
E’ esigenza fondamentale, a tutela delle facoltà dell’imputato di apprestare la propria difesa, che permanga immutata l’azione ascritta (v. Cass. Sez. 5 5 luglio 2010 n. 37920) e, nel caso di specie, non v’è dubbio alcuno che l’oggetto della contestazione e delle decisioni del merito, sia stata la obbiettiva incompletezza della documentazione societaria.

4. Il secondo motivo di ricorso è addirittura inammissibile in quanto questa Corte di legittimità non è in grado, sulla base di quanto esposto dal ricorrente alle pagine 2 e 3 del ricorso, di comprendere la dedotta nullità, in quanto non si specificano nè si allegano gli atti che avrebbero determinato l’incompletezza del dispositivo.
Questa Corte ha anche affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione che pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (v. Cass. Sez. 5 22 gennaio 2010 n. 11910).
In ogni caso, se il riferimento è alla discordanza tra dispositivo letto in udienza e dispositivo della sentenza con riferimento all’intervenuta dichiarazione di prescrizione dell’ascritto delitto di appropriazione indebita, la giurisprudenza di questa Corte ha reiterata mente affermato come il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo, potendosi, eventualmente, eliminare la divergenza mediante ricorso alla semplice correzione dell’errore materiale della motivazione in base al combinato disposto degli artt. 547 e 130 cod. proc. pen. (v. da ultimo Cass. Sez. 5 23 marzo 2011 n. 22736, Sez. 5 17 gennaio 2013 n. 8363 e Sez. 3 20 febbraio 2013 n. 19462).
Il che è quanto può ripetersi anche con riferimento a difformità tra dispositivo letto in udienza e dispositivo della sentenza impugnata.
A maggior ragione è manifestamente infondata la questione della mancata indicazione nel dispositivo del rigetto delle eccezioni sollevate nel corso del relativo grado di giudizio, rigettate con provvedimenti dei Collegi giudicanti e, infine, assorbite dalla decisione sul merito e dalla relativa motivazione sul punto.

5. Con riferimento al terzo, quarto e quinto motivo che possono essere trattati congiuntamente, non si ravvisa alcuna illogicità manifesta della motivazione nell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato nella sua veste di amministratore di fatto della società dichiarata fallita, sulla base sia di quanto concretamente accertato e motivato sul punto dal Giudice del primo grado sia di quanto ribadito dal Giudice dell’impugnazione in conformità, inoltre, a quanto pacificamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità sul punto.
Sulla base dei principi che regolano la materia non è dubbio che in tema di reati fallimentari, nell’ipotesi di fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione, e con riferimento alla posizione dell’extraneus in reato proprio dell’amministratore di società, debba ritenersi che il soggetto esterno alla struttura sociale possa sicuramente commettere il reato sia direttamente, attraverso la propria attività contraria alla tutela della par condicio creditorum, che, del pari, mediante condotta agevolativa di quella dell’intraneus, nella consapevolezza della funzione di supporto alla distrazione, intesa quest’ultima come sottrazione dal patrimonio sociale e suo depauperamento ai danni della classe creditoria, in caso di fallimento.
Nel caso in cui, a sua volta la distrazione venga realizzata mediante l’azione “combinata” di più soggetti, la consapevolezza del partecipe extraneus deve abbracciare le varie condotte ed i reciproci loro nessi, protesi al raggiungimento dell’evento conclusivo (v. Cass. Sez. 5 15 febbraio 2008 n. 10742 e 2 ottobre 2009 n. 49642).

Nella specie, in punto di fatto, la Corte territoriale ha dato pienamente conto del ruolo svolto dal D.C. all’interno della società decotta (in particolare sulla base delle chiamate in correità dei coimputati L. e S.) per cui richiedere a questa Corte di legittimità una rilettura del materiale probatorio, già conformemente valutato in entrambi i gradi del merito, alla luce di considerazioni del tutto personali che non valgono ad inficiare le argomentazioni dei suddetti Giudici, appare operazione non consentita.

La giurisprudenza di questa Sezione della Corte (v. 11 gennaio 2008 n. 7203 e di poi 19 febbraio 2010 n. 19049) ha, poi, formulato una distinzione in tema di responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta, evidenziando il diverso atteggiarsi dei criteri di imputazione di quella patrimoniale e di quella documentale, sotto il profilo soggettivo quando l’amministratore di diritto non sia anche quello effettivo, ma risulti affiancato dalla figura dell’amministratore di fatto, eventualmente con esautorazione dei poteri del primo che per questo viene comunemente definito “testa di legno”.
Ebbene, si è opportunamente affermato che, con riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione ovvero per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita (cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture.

Non altrettanto può dirsi con riguardo all’ipotesi della bancarotta patrimoniale o per distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittimi la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto.

Ovviamente, per la figura dell’amministratore di fatto, accertata in riferimento alla posizione dell’odierno ricorrente, vale il principio della assoluta equiparazione alla figura dell’amministratore di diritto quanto a doveri, sicchè si è rilevato che l’amministratore “di fatto”, in base alla disciplina dettata dal novellato art. 2639 cod. civ., è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40 c.p., comma 2.
Nella specie, per l’appunto, l’impugnata sentenza ha dato espressamente conto dell’attività distrattiva posta in essere dal ricorrente (v. riferimento alle testimonianze M., Ma. e F.) sulla base di accertamenti istruttori che non è consentito rimettere in discussione avanti questa Corte di legittimità.

6. Quanto al sesto motivo basta osservare, per disattenderlo, come la Corte territoriale abbia sufficientemente e logicamente motivato, con accertamento in fatto del pari incensurabile avanti questa Corte, sulla mancata concessione delle attenuanti generiche.
Si rammenta, al riguardo, come la concessione delle attenuanti generiche risponda a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso Giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Tali attenuanti non vanno intese come oggetto di una benevola concessione da parte del Giudice, nè l’applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento della esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (v. Cass. Sez. 6 28 ottobre 2010 n. 41365 e Sez. 3 27 gennaio 2012 n. 19639).
A ciò può aggiungersi come, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche sia sufficiente che il Giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime (v. Cass. Sez. 2 18 gennaio 2011 n. 3609).
La pena, ancora, non risulta inflitta in misura illegale per cui neppure merita censura di legittimità avanti questa Corte.

7. Con riferimento all’ultimo motivo, in merito alla applicata sanzione accessoria per i delitti di bancarotta fraudolenta (inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale per anni dieci) è noto come nella giurisprudenza di questa Corte permanga un contrasto relativo, appunto, alla durata della pena accessoria interdittiva in caso di condanna per bancarotta.

Si registra infatti un primo orientamento (tra le tante, Cass. Sez. 5 22 gennaio 2010 n. 9672 e Sez. 5 31 marzo 2010 n. 23720) in base al quale detta pena (inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali e incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per dieci anni prevista dalla L. Fall., art. 216, u.c.), non può considerarsi indeterminata; con la conseguenza che essa non si sottrae alla disciplina di cui all’art. 37 cod. pen., che, come è noto, impone che la pena accessoria abbia eguale durata a quella principale quando essa non sia predeterminata.

Esiste però altra corrente giurisprudenziale (v. Cass. Sez. 5 30 maggio 2012 n. 30341, Sez. 5 20 settembre 2012 n. 42731 e da ultimo Sez. 5 31 gennaio 2013 n. 11257) per la quale deve rientrare nella nozione di pena accessoria non espressamente determinata dalla legge, quella per cui sia previsto un minimo ed un massimo, sicchè, in tali casi, la durata della pena accessoria va parametrata dal Giudice a quella della pena principale inflitta.
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Al proposito ritiene questo Collegio che, dal raffronto tra L. Fall., art. 216, comma 4 e L. Fall., art. 217, comma 3, emerga netta la differenza voluta dal Legislatore.
Invero, nel primo caso, “la condanna….importa per la durata di 10 anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata di esercitare uffici direttivi preso qualsiasi impresa”; nel secondo caso, è previsto che “la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a 2 anni”.
La littera legis è dunque chiara: nella ipotesi più grave (bancarotta fraudolenta) si è voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha creato danno e “disordine” per il (considerevole) lasso di tempo di due lustri; nella ipotesi meno grave (bancarotta semplice), l’inabilitazione e l’incapacità hanno “un tetto” molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all’apprezzamento del Giudice.
“Per la durata di 10 anni”, invero, è espressione significativamente ben diversa da “fino a 2 anni”: nel primo caso, la proibizione dura (appunto) interrottamente per una decade, nel secondo non può superare il biennio (ma può, quindi, anche coprire un più ridotto arco temporale).
La ratio è evidentemente special-preventiva e la scelta del Legislatore non appare al di fuori degli schemi della logica.
Un Collegio di questa stessa Sezione (v. Cass. Sez. 5 23 marzo 2011 n. 16083), che aderiva all’indirizzo più risalente, ritenendo insuperabile il dato testuale, ha, però, ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., della L. Fall, art. 216, comma 4, nella parte in cui determinava in maniera fissa in dieci anni la durata della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, ed ha rimesso gli atti al Giudice delle leggi.
La Corte Costituzionale, con sentenza del 31 maggio 2012, n. 134, ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale ritenendo che la sentenza additiva (richiesta al fine di rendere applicabile l’art. 37 cod. pen.) non costituisse una soluzione costituzionalmente obbligata, rimanendo pertanto legata a scelte affidate alla discrezionalità del legislatore.
La Consulta ha, dunque, implicitamente confermato la validità dell’interpretazione proposta dal Collegio remittente, secondo cui nell’attuale formulazione legislativa la pena accessoria è prevista in misura fissa (e ciò non lede alcun diritto costituzionalmente protetto).
Deve pertanto ribadirsi che la pena accessoria che consegue alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta è indicata in misura fissa e inderogabile dal legislatore nella durata di anni dieci; ne consegue che i Giudici di merito non hanno commesso alcuna violazione di legge, nè avevano alcun obbligo di motivazione connesso all’irrogazione della pena accessoria.

Ove, invece, il ricorso è meritevole di accoglimento è sul punto della quantificazione della pena accessoria della interdizione dai Pubblici Uffici.
L’art. 29 c.p. prevede l’interdizione perpetua, come pena accessoria, per condanne a pene superiori ad anni cinque e l’interdizione per anni cinque a seguito di condanne a pene non inferiori ad anni tre.
Nella specie, l’odierno ricorrente aveva riportato, in primo grado, una condanna alla pena di anni cinque di reclusione per cui era sicuramente legittima la irrogata sanzione accessoria dell’interdizione perpetua dai Pubblici Uffici.
In appello, la pena era stata diminuita ad anni tre e mesi due di reclusione per cui la Corte territoriale avrebbe dovuto ridurre la indicata sanzione accessoria da perpetua ad anni cinque.
Non avendolo fatto s’impone, di conseguenza, l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza con rideterminazione, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. l), della sanzione accessoria dell’interdizione dai Pubblici Uffici nella misura di anni cinque.
Infine, il concorso di pene accessorie speciali, di cui alla Legge Fallimentare, e generali, di cui al Codice Penale è legittimato dalla stessa lettera della legge (art. 216, u.c., L Fall.).

8. Il ricorso va, pertanto, accolto nel senso dianzi indicato e rigettato nel resto.

P.Q.M.

La Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria della interdizione dai P.P.U.U. che ridetermina in anni 5; rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2014

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