Induzione indebita e concussione – Cassazione Penale, Sez. VI, 15 aprile 2013 n. 17285

La condotta di induzione richiesta per la configurabilità del delitto di cui all’art. 319 quater c.p. (introdotto dalla L. n. 190 del 2012) è integrata da un’attività di suggestione, di persuasione o di pressione morale, posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio nei confronti del privato, che, avvertibile come illecita da quest’ultimo, tuttavia non ne condiziona gravemente la libertà di autodeterminazione, rendendo a lui possibile di non accedere alla pretesa del soggetto pubblico; mentre nel caso di condotta costrittiva – consistente in una coazione psichica che, pur non eliminandola del tutto, condiziona gravemente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo – è diversamente configurabile la fattispecie di concussione di cui all’art. 317 c.p., a carico del pubblico ufficiale, o quella di estorsione aggravata di cui all’art. 629 c.p., art. 61 c.p., n. 9, a carico dell’Incaricato di un pubblico servizio. [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente -
Dott. CORTESE Arturo – Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni – rel. Consigliere -
Dott. ROTUNDO Vincenzo – Consigliere -
Dott. CARCANO Domenico – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: 1. V.A.S., nato a (OMISSIS); 2. A.G., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 21/10/2011 della Corte di appello di Palermo;

visti gli atti, la sentenza denunziata e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni Conti;
udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Sante Spinaci, che ha concluso per la riqualificazione del fatto ex art. 319 quater c.p., e conseguente annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena;
udito per i ricorrenti il difensore avv. CASCIOFERRO GIOVANNI, anche in sostituzione dell’avv. Claudio Gallina Montana, che ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza in data 3 febbraio 2010 del Tribunale di Termini Imerese, riduceva ad anni tre di reclusione la pena inflitta a ciascuno degli imputati V.A.S. e A.G., riconosciuti responsabili, con le attenuanti generiche, del reato di cui agli artt. 110 e 317 c.p., perchè, in concorso tra loro, quali funzionari addetti all’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di Palermo, abusando dei propri poteri, inducevano C.G., imprenditore agricolo che aveva presentato una istanza per l’ottenimento di un contributo comunitario finalizzato a favorire metodi di agricoltura e di allevamento a regime biologico in relazione alle annate agricole dal 2002 al 2004, a promettere loro indebitamente il 25 per cento del contributo pari a Euro 18.000 per un celere e positivo accoglimento della istanza.
La Corte di appello, sulla base delle dichiarazioni testimoniali e di colloqui registrati, riteneva accertato che il C., che aveva presentato un certificato attestante i requisiti richiesti (in particolare il rapporto, non superiore a due, tra il numero di bovini – UBA – e la superficie di pascolo – HA -) e che per l’anno 2001 aveva già ottenuto dal precedente funzionario Salvatore Vitale l’ammissione al beneficio, era stato indotto dai predetti funzionari, a seguito della prospettazione che una parte della tenuta, costituente macchia mediterranea e caratterizzata da salti di roccia, non avrebbe potuto essere computata nella superficie impiegabile come pascolo, a promettere loro la predetta percentuale del contributo.
Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, il C., stupito per le difficoltà frappostegli dai due funzionari per una celere definizione della pratica – del tutto analoga a quella degli anni precedenti in relazione alla quale non aveva avuto alcun problema ad ottenere il finanziamento – si era consigliato con il suo tecnico D.C., il quale gli aveva espresso il convincimento che i due “cercavano soldi”. A tal punto egli aveva riferito i suoi sospetti ai Carabinieri, i quali lo istruivano sul da farsi e lo munivano di un registratore. Ad un successivo incontro, il V. e l’ A. esplicitavano che la pratica sarebbe andata a buon fine previa corresponsione di una somma di denaro, quantificata in Euro 18.000, pari al 25 per cento del contributo; somma che il C. si dichiarava disposto a consegnare loro.
La dazione materiale della somma non era poi avvenuta, dal momento che i due funzionari, dopo avere raggiunto l’accordo in tal senso, si erano rifiutati di riceverla. Tale comportamento, ad avviso della Corte di appello, era successivo alla consumazione del reato, integratosi con la promessa della tangente accettata dai due funzionari, e poteva spiegarsi con la successiva intromissione del tecnico di fiducia del C. e con la preoccupazione dei due che questi potesse avere a che dire sul loro operato.

2. Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati.

3. Con atto sottoscritto dai difensori avvocati Claudio Gallina Montana e Giovanni Cascioferro, si deducono i seguenti motivi.
3.1. Vizio di motivazione in punto di ricostruzione dei fatti, essendo da ritenere sulla base delle risultanze processuali che effettivamente la superficie adibibile a pascolo poteva ritenersi inferiore al previsto rapporto con i capi bovini, tenuto conto sia della parte di essa costituente macchia mediterranea sia della possibile non corrispondenza al vero del registro-stalla; e ciò rendeva pienamente giustificate le perplessità degli imputati sulla esistenza dei presupposti per il riconoscimento del contributo. Ne è riprova il fatto che successivamente, a seguito degli accertamenti dell’Ispettorato Agrario di Palermo, la pratica venne bocciata.
Inoltre era stato il C., presentandosi ai Carabinieri ancor prima di conoscere i due funzionari a prendere l’iniziativa di corromperli, a fronte di una condotta del tutto legittima degli stessi.
3.2. Violazione degli artt. 317, 319 e 56 c.p., dato che il fatto doveva essere qualificato come tentata corruzione, poi non consumatasi per il recesso degli Imputati, che avevano per ben tre volte rifiutato il denaro che il C. intendeva corrispondere loro.

4. Con successivo atto, sottoscritto personalmente dall’ A. e dagli avvocati Salvatore Donato Messina e Claudio Gallina, si deducono analoghi profili di vizio di motivazione e violazione di legge, in particolare mettendosi in evidenza i contrasti nella ricostruzione dei fatti tra sentenza di primo e di secondo grado, e prospettandosi in ulteriore subordine la configurabilità di un tentativo di concussione, posto che prima del fatto il C., presentatosi dai Carabinieri, era stato da questi munito di un apparecchio con il quale aveva poi registrato il colloquio con gli imputati.

5. Da ultimo i difensori degli imputati hanno presentato memoria con la quale, ancora in subordine, prospettano la configurabilità nei fatti della fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., introdotta dalla L. 6 novembre 2012, n. 190.

Motivi della decisione

1. Ad avviso della Corte le censure prospettate nei ricorsi sono, da un lato, giuridicamente inconsistenti, dall’altro, manifestamente infondate.
2. Va premesso che ai fini dell’affermazione della responsabilità penale non ha rilievo la questione relativa alla eventuale non corrispondenza ai requisiti normativi del parametro rappresentato dal rapporto numero di bovini – superficie pascolarle, posto che comunque gli imputati subordinarono una vantazione favorevole al C. al versamento da parte di questo di una tangente (pari a Euro 18.000), circostanza non contestata e comunque risultante dal tenore dei colloqui registrati.
3. In simile fattispecie non è configurabile la prospettata ipotesi di tentata corruzione (meglio, semmai, di istigazione alla corruzione, ex art. 322 c.p., comma 2) a carico del C., dato che, secondo la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito, quest’ultimo non assunse alcuna iniziativa corruttiva, limitandosi a recepire (e poi a fingere di accettare) una richiesta di tangente formulatagli dai pubblici ufficiali cui era subordinato l’esito positivo della pratica.
Non potrebbe neppure evocarsi la figura del reato impossibile, dato che per tale ipotesi occorre che l’azione delittuosa derivi in via assoluta ed esclusiva dalla istigazione dell’agente provocatore (v. per tutte Sez. 5, n. 11915 del 26/01/2010, Dell’Aversano, Rv. 246554; Sez. 6, n. 16163 del 24/01/2008, Casaula, Rv. 239640), mentre nella specie furono gli imputati ad avanzare al C. precise richieste economiche cui era subordinato il loro operato.
Resta poi accertato che i due recepirono prontamente la promessa di pagamento fattagli dall’imprenditore, da essi larvatamente, ma inequivocabilmente, sollecitato ad agire in tal senso per ottenere la positiva conclusione della pratica, dovendosi così ritenere integrata la fattispecie di reato loro contestata; nulla rilevando che, successivamente, presumibilmente per timori sopravvenuti circa l’accertamento di loro responsabilità penali, i due abbiano ricusato di incassare la somma di denaro concordata.

4. Va considerato però che successivamente alla proposizione dei ricorsi è intervenuta la L. 6 novembre 2012, n. 190, che ha fatto rifluire una parte della condotta compresa nell’art. 317 c.p., nella nuova fattispecie di “Induzione indebita a dare o promettere utilità” di cui all’art. 319 quater c.p.; tanto che gli stessi ricorrenti, nella memoria da ultimo depositata, sollecitano, sia pure in via subordinata, la riqualificazione del fatto ai sensi di questa nuova ipotesi di reato.

5. Ad avviso della Corte, tale richiesta di riqualificazione giuridica è fondata.
6. Nell’art. 319 quater c.p., è stata isolata e resa autonomamente punibile la condotta di induzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, già compresa nella fattispecie di concussione di cui all’art. 317 c.p., ora ristretta, con riferimento soggettivo al solo pubblico ufficiale, alla condotta costrittiva.
Il medesimo art. 319 quater, al comma 2, ha introdotto la responsabilità penale del privato “indotto”, che, per effetto della condotta del soggetto pubblico, si risolve a dare o promettere denaro o altra utilità.
La nuova fattispecie, rubricata, come detto, “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, pur facendo partitamente riferimento alla condotta di due soggetti, non integra propriamente un reato bilaterale, come nel caso della corruzione, perchè le due condotte del soggetto pubblico e del privato si perfezionano autonomamente. Il soggetto pubblico continua ad essere punito perchè “induce taluno a dare o a promettere indebitamente” denaro o altra utilità; il soggetto privato è (ora) punito perchè, essendo stato in tal modo indotto, “da o promette” denaro o altra utilità. Invece, nella corruzione, tipico reato bilaterale, il soggetto pubblico “riceve” denaro o altra utilità, o “ne accetta la promessa”, sulla base di un accordo che intercorre necessariamente con il privato. Dunque, in base all’art. 319 quater, i due soggetti si determinano autonomamente, e in tempi almeno idealmente successivi: il soggetto pubblico avvalendosi del – e il privato subendo il – metus publicae potestatis; mentre la fattispecie corruttiva si basa su un accordo, normalmente prodotto di una iniziativa del privato.
La esclusione della natura bilaterale della nuova fattispecie di cui all’art. 319-quater contribuisce a risolvere, in senso positivo, il problema della continuità normativa tra la ipotesi descritta dal comma primo di questo articolo e quella, del tutto analoga, allora ricompresa nel più ampio paradigma della concussione.
Infatti, la concussione, già nella precedente formulazione dell’art. 317 c.p., postulava certamente una fattispecie “naturalisticamente plurisoggettiva”, nel senso che per la esistenza del reato era richiesta una pluralità di soggetti, il concussore e il concusso; ma di questi solo il primo era assoggettato a responsabilità penale, essendo il secondo concepito come vittima.
Ora, invece, nella particolare fattispecie di “induzione indebita”, a quella tradizionale del soggetto pubblico agente si affianca la condotta, divenuta penalmente rilevante, del soggetto privato; ma il soggetto pubblico continua ad essere punito per la stessa identica condotta prima considerata, insieme alla condotta costrittiva, dalla fattispecie rubricata sotto il previgente art. 317 c.p..

7. Resta dunque da stabilire quali siano i criteri di distinzione tra le nuove fattispecie di cui agli artt. 317 e 319 quater c.p., come modificate dalla L. n. 190 del 2012.
Sembra al Collegio al riguardo che, partendo dalla premessa della continuità normativa tra la fattispecie induttiva, considerata, insieme alla condotta “costrittiva”, dal previgente art. 317 c.p., e quella di analogo tenore confluita nel nuovo art. 319 quater c.p., non possa che farsi riferimento ai consolidati criteri elaborati dalla giurisprudenza per distinguere, appunto, la condotta di “costrizione” da quella di “induzione”.
Se, infatti, fossero evocabili nuove categorie concettuali, sarebbe da dubitare, almeno nei casi di non coincidenza nella singola fattispecie tra queste e le precedenti, della possibilità di stabilire una continuità normativa tra le diverse fattispecie.
Ora, secondo nozioni più volte riaffermate dalla prevalente giurisprudenza (v. tra le altre Sez. 2, n. 2809 del 01/12/1995, dep. 1996, Russo, Rv. 204363; Sez. 6, n. 2985 del 22/10/1993, Fedele, Rv. 196049; Sez. 6, n. 2986 del 22/10/1993, dep. 1994, Catapano, Rv. 197717; nonchè, per l’analoga nozione di induzione considerata dall’art. 643 cod. pen., Sez. U, n. 1669 del 15/12/1973, dep. 1974, Crespi, Rv. 126263), mentre la condotta costrittiva consiste in una coazione psichica che, pur non eliminandola del tutto, condiziona gravemente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo, la condotta induttiva si riferisce a ipotesi di pressione psichica sulla vittima più blande della costrizione (persuasione, ostruzionismo, silenzio antidoveroso), che sia pure non estrinsecandosi in minacce esplicite, convincono il privato a dare o promettere l’indebito (c.d. induzione per persuasione); nonchè a ipotesi in cui il privato sia determinato a dare o promettere l’indebito da un comportamento fraudolento o ingannatorio del soggetto pubblico essendo però consapevole del carattere indebito della prestazione (v. su tale puntualizzazione, tra le altre, Sez. 6, n. 20195 del 22/04/2009, Golino, Rv. 243842; Sez. 6, n. 2677 del 16/12/2005, dep. 2006, Bambara, Rv. 233493; Sez. 6, n. 11259 del 05/10/1998, Sacco, Rv. 211747; Sez. 6, n. 3546 del 26/01/1996, Iafisco, Rv. 204492), e sempre che egli non si possa sottrarre, se a non a pena di conseguenze gravemente negative, alla indebita richiesta (c.d. induzione ingannatoria).
La necessità della consapevolezza da parte del privato del carattere indebito della prestazione è negata da una giurisprudenza minoritaria, che però ha il torto di rendere equivalente l’espressione “induce” a quella “induce in errore”. Se così fosse, si perderebbe la esatta linea di confine con il reato di truffa (aggravato ex art. 61 c.p., n. 9, o, secondo i casi, ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 2, n. 2). Tale via interpretativa deve inoltre essere ora positivamente esclusa sulla base della previsione della punibilità del soggetto “indotto”, in forza dell’art. 319 quater c.p., comma 2.
In entrambe le accennate ipotesi (condotta costrittiva o induttiva), la conseguenza prospettata per il caso di mancata adesione del privato integra un danno (o la perdita di un vantaggio) per quest’ultimo, essendo indifferente se esso sia o meno conforme all’ordinamento giuridico.
Ad esempio, il prospettare da parte di un organo di polizia il (legittimo) sequestro di un veicolo per una violazione che ciò implichi, nel corso di un lungo viaggio che il conducente sta compiendo lontano da casa, ove non sia corrisposta da questo una somma di denaro, integra verosimilmente, nella generalità dei casi, una costrizione; ma il far leva su un divieto di sosta in zona urbana, per condizionare al pagamento di una mancia la omessa elevazione dell’accertamento della violazione amministrativa, altrettanto verosimilmente non la integra, rimanendo tale condotta confinata nella ipotesi induttiva.
Parimenti, integrerebbero una costrizione o una semplice induzione, sull’opposto versante del danno ingiusto, gli stessi esempi sopra accennati qualora la violazione amministrativa fosse palesemente un pretesto addotto dal pubblico ufficiale in una situazione di pacifica conformità alle norme sulla circolazione stradale.

8. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: “La condotta di induzione richiesta per la configurabilità del delitto di cui all’art. 319 quater c.p. (introdotto dalla L. n. 190 del 2012) è integrata da un’attività di suggestione, di persuasione o di pressione morale, posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio nei confronti del privato, che, avvertibile come illecita da quest’ultimo, non ne condiziona gravemente la libertà di autodeterminazione, rendendo a lui possibile di non accedere alla pretesa del soggetto pubblico, essendo diversamente configurabile la fattispecie di concussione di cui all’art. 317 c.p., a carico del pubblico ufficiale, o quella di estorsione aggravata di cui all’art. 629 c.p., art. 61 c.p., n. 9, a carico dell’Incaricato di un pubblico servizio”.

9. Venendo ora alla concreta fattispecie in esame, è indubitabile che la richiesta di tangente formulata dagli imputati al C. in relazione a un accertamento tecnico che essi stavano compiendo, non implicava alcuno stato di costrizione del medesimo, potendo bene egli attendere l’esito della verifica e assumere le eventuali iniziative a tutela dei suoi diritti; prova ne sia che ebbe modo di consigliarsi con il tecnico di fiducia e di rivolgersi alle forze di polizia.
Correttamente, dunque, pur nel contesto della previgente formulazione dell’art. 317 c.p., nel capo di imputazione è stata contestata una mera condotta induttiva.

10. Poichè il fatto corrisponde ora alla fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., che prevede una pena più lieve, la sentenza impugnata va annullata in punto di determinazione della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, non potendo questa Corte provvederà alla rideterminazione della pena, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), non essendo stata la pena inflitta, commisurata a quella prevista dal previgente art. 317 c.p., fissata nel minimo edittale.

P.Q.M.

Qualificata l’imputazione ex art. 319 quater c.p., annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2013

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