I criteri generali per sapere quando il compenso richiesto dall’avvocato è manifestamente sproporzionato e costituisce illecito disciplinare [Armando Argano - 17 aprile 2016]

Nonostante l’impegno della giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, è assai arduo individuare i criteri alla stregua dei quali stabilire se il compenso dell’avvocato possa ritenersi quantitativamente lecito, non risultando purtroppo ancora possibile avere parametri certi e dovendosi così fare ricorso ad argomentazioni meramente valutative.
Nella newsletter istituzionale pervenuta il 16 aprile 2016 si legge infatti quanto segue:

CNFnews17apr2016La pur accuratamente motivata decisione cui si fa ivi riferimento (CNF 11 luglio 2015 n. 87), è tuttavia ancora una volta diffusa dopo essere stata depurata del valore della questione e del compenso censurato, così non consentendo al lettore di costruire, con le altre sullo stesso argomento, una casistica che possa concretamente fungere da bussola.
Nella pronuncia il C.N.F., sia pur con le specificità del caso, non può fare altro che affermare il generale e addirittura ovvio principio secondo cui “La  valutazione  del  compenso  come sproporzionata  va  effettuata  solo  al  termine  di un giudizio di comparazione fra l’attività espletata e la misura della remunerazione richiesta” (nella specie l’incolpato aveva applicato valori percentuali comunque compresi tra quelli medi e quelli massimi).

Ed invece, fuori dai casi di compensi manifestamente sproporzionati (ma pure questa, in fondo, è una valutazione), si sente sempre di più la necessità di avere degli indicatori numerici certi: il non voluto, ma oramai consolidato inserimento degli avvocati nel sistema del cosiddetto libero mercato, non consente loro reggere alla pressione dei relativi meccanismi economici, laddove rimangano nel contempo esposti alla (giusta) severità del giudizio domestico anche sotto l’indefinito profilo dell’onorario professionale.
Il nostro sistema, infatti, si dibatte ancora tra le liberalizzazioni “progressiste” imposte dall’Unione Europea e lo status costituzionale “conservatore” dell’avvocato italiano.
La stessa parola “liberalizzazioni” esprime tutto il contrasto tra ciò che era prima e ciò che – dopo di esse – è oggi e sarà domani.
Ma non si deve cadere nella trappola, semanticamente implicita, che il nuovo sia aprioristicamente migliore del precedente.

Con ciò, sia chiaro, non intendo affermare che si possa mai pretendere dal cliente un compenso – appunto – manifestamente sproporzionato e neppure solo eccessivo, bensì unicamente osservare che è tempo di trovare criteri che non inducano alla preventiva autoriduzione economica, che finisce per penalizzare solo gli avvocati attenti e corretti.

E’ evidente il condivisibile sforzo del Consiglio Nazionale Forense volto a creare un sistema che, con rigore, qualifichi l’avvocato come professionista che si fa carico sociale della propria alta funzione nei confronti della collettività, ma resta il fatto che – al di là del caso in questione – è sempre più necessaria una griglia di valori entro i quali avere certezza della liceità disciplinare del compenso.
Ho sentito male? Qualcuno ha detto tariffa?……

[Armando Argano - 17 aprile 2016]

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