Il medico può essere tenuto anche al risarcimento del danno imputabile alla struttura sanitaria, poichè la sua prestazione professionale comprende anche l’obbligo di accertarsi della idoneità della casa di cura che indica al paziente [Cassazione Civile, Sez. III, 13 gennaio 2015 n. 280]

Sia in ambito di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, tutte ne rispondono solidalmente in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause nella produzione dell’evento, pertanto la persona danneggiata può pretendere l’intero da una sola di esse, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l’eventuale, diseguale efficienza causale delle loro condotte può avere rilevanza solo ai fini della ripartizione interna dell’obbligazione passiva tra i corresponsabili.
Il dovere di diligente espletamento della prestazione del medico comprende l’obbligo di accertarsi preventivamente che la casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto ciò che serve per il sicuro e ottimale espletamento della prestazione; così come, reciprocamente, la casa di cura è obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto (la Suprema Corte precisa che si tratta di collegamento ontologico, che dal piano fattuale assume rilevanza su quello giuridico, posto che di norma l’individuazione della casa di cura dove il medico eseguirà la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici). [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETTI Giovanni B. – Presidente -
Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere -
Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere -
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8955/2013 proposto da: P.U. [omissis], elettivamente domiciliato in Roma, Via Savoia 84, presso lo studio dell’avvocato Simona Filippone, rappresentato e difeso dall’avvocato Augeri Erasmo giusta procura speciale in calce al ricorso;
- ricorrente -

contro

Pr.Gi. e G.A. in proprio e nella qualità di esercenti la potestà e tutori del figlio Pr.Lu., elettivamente domiciliati in Roma, Via Tuscolana 346, presso lo studio dell’avvocato Sergio Olivieri, rappresentati e difesi dall’avvocato Scarpetta Giuliana Raffaella giusta procura speciale a margine del controricorso;
- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 232/2012 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 28/02/2012, r.g.n.. 1305/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2014 dal Consigliere Dott. Adelaide Amendola;
udito l’Avvocato Erasmo Augeri;
udito l’Avvocato Riccardo Rampioni per delega;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Velardi Maurizio, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

In data [omissis], giunta al termine della gravidanza, G.A. venne ricoverata, su indicazione del Dott. P.U., che l’aveva seguita durante la gestazione, presso la Casa di Cura [omissis].
All’esito del travaglio, risultati vani i numerosi tentativi di espulsione naturale del feto, non essendo più praticabile il taglio cesareo, il ginecologo, alle ore 19.30 del [omissis], provvide a estrarre il bambino facendo uso del forcipe.
Il neonato, manifestando sintomi di sofferenza perinatale, venne trasferito la sera stessa della nascita all’ospedale di [omissis], dove fu formulata diagnosi di emorragia endocranica da parto distocico.
Deducendo che il figlio, a causa dell’imperizia del sanitario, era affetto da tetraparesi spastica, microcefalia e ritardo motorio, G.A. e Pr.Gi., in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sul minore, convennero Pr.L. innanzi al Tribunale di Salerno, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.
Resistette il convenuto.

Con sentenza del 1 luglio 2005 il giudice adito dichiarò il P. responsabile nella misura di un terzo dei pregiudizi lamentati dagli attori, per l’effetto condannandolo al pagamento in loro favore della somma di Euro 375.000,00, oltre interessi e spese.
Proposto gravame principale dal P. e incidentale dalla G. e dal Pr., la Corte d’Appello di Salerno, in data 26 febbraio 2012, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato P.U. al pagamento, in favore di G.A. e di Pr.Gi., nella qualità di legali rappresentanti del figlio Lu., della somma di Euro 434.000,00, nonchè in favore degli stessi in proprio, della somma di Euro 83.000,00 ciascuno, oltre accessori.
Per la cassazione di detta decisione ricorre a questa Corte P.U., formulando due motivi, illustrati anche da memoria.
Resistono con controricorso G.A. e Pr.Gi..

Motivi della decisione

1. – Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del controricorso per tardività.
E invero, a norma dell’art. 370 c.p.c. , la parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddire, deve farlo mediante controricorso da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. In mancanza di tale notificazione, essa non può presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discussione orale.

Orbene, nella fattispecie, a fronte di una notifica del ricorso intervenuta in data 29 marzo 2013, il controricorso è stato presentato per la notifica il 19 giugno successivo, ben oltre, dunque, il limite temporale massimo stabilito dalla norma processuale richiamata.
Ciò nondimeno il difensore ha validamente partecipato alla discussione orale, posto che, in tema di giudizio di legittimità, la procura speciale conferita dalla parte intimata con un controricorso inammissibile resta valida come atto di costituzione, consentendo al difensore della stessa di partecipare attivamente alla pubblica udienza (confr. Cass. civ. 28 maggio 2013, n. 13183).

2. – Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione degli artt. 40 e 41 c.p. , artt. 1176, 1218, 1223, 1226 e 1227 c.c. , artt. 115 e 116 c.p.c. , nonchè mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, ex art. 360 c.p.c. , nn. 3 e 5.
Oggetto delle critiche è l’affermazione del giudice di merito secondo cui la valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili può sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilità totale per l’autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilità, con esclusione, dunque, di ogni possibilità di graduare percentualmente la responsabilità dell’autore della causa imputabile.
Tali argomentazioni – sostiene l’esponente – farebbero malgoverno della distinzione, ormai assurta a diritto vivente, tra causalità materiale e causalità giuridica: la prima, regolata dagli artt. 40 e 41 c.p. , volta a imputare al responsabile l’evento lesivo; la seconda, regolata dall’art. 1223 c.c., volta a stabilire l’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto di cui deve rispondere l’autore.

3. – Le critiche non hanno pregio.
Nel motivare il suo convincimento la Corte d’appello ha evidenziato come, sulla base degli argomentati rilievi degli ausiliari, l’errato impiego del forcipe dovesse ritenersi fattore causale essenziale nella eziologia della patologie che affliggevano il piccolo Lu., determinandone l’invalidità nella misura del 100%.
Del resto – ha aggiunto – una volta allegata la responsabilità del ginecologo per il mancato espletamento del parto cesareo, malgrado la manifestatasi sofferenza fetale, sarebbe stato onere del convenuto dimostrare o che nessun rimprovero, di scarsa diligenza o imperizia, poteva essergli mosso, oppure che, pur essendovi stato inesatto adempimento, questo non aveva avuto alcuna incidenza nella produzione del danno, laddove tale prova non era stata fornita dal P..
Quanto poi alla dedotta esistenza di un danno cerebrale prenatale, dello stesso, ad avviso della Corte, mancava ogni certezza, tenuto conto che il convenuto aveva fatto riferimento in maniera affatto generica a una non meglio specificata situazione congenita.

In ogni caso – ha concluso il decidente – anche a voler ritenere la sussistenza, nella sequela causale che aveva dato origine alla grave patologia da cui era affetto Pr.Lu., di un fattore prenatale, valeva pur sempre il principio per cui la valutazione del concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili poteva sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilità totale per l’agente, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni responsabilità, a seconda che il giudice ritenesse o meno, la perdurante operatività del nesso di causalità tra la predetta causa umana e l’evento, essendo esclusa ogni possibilità di graduare percentualmente la responsabilità dell’autore del comportamento.

4. – A fronte di tale corredo motivazionale, l’adesione del collegio all’affermazione secondo cui, in tema di responsabilità civile, qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia, possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione del danneggiato, il giudice deve accertare, sul piano della causalità materiale l’efficienza della condotta rispetto all’evento, in applicazione della regola di cui all’art. 41 c.p., così da ascrivere il fatto dannoso interamente all’autore della stessa, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (confr. Cass. civ., 21 luglio 2011, n. 15991), non giova all’esponente in quanto, al postutto, il decidente ha escluso l’enucleabilità nella fattispecie di un danno cerebrale neonatale, in motivata adesione all’opinione espressa dai nominati esperti, i quali avevano precisato che l’origine delle affezioni di Pr.Lu. era da ascriversi al momento del travaglio.

Ciò vuoi dire che la mancanza di ogni riferimento, nella sentenza impugnata, alla selezione delle conseguenze dannose ascrivibili al sanitario secondo i criteri della causalità giuridica, non concreta nè un errar in iudicando nè un vizio motivazionale, posto che l’omissione, quand’anche imputabile all’insufficiente approccio del giudice di merito con i principi che governano la materia, non ha influito sulla scelta decisoria adottata, avendo il decidente tout court escluso la sussistenza di un concorso tra fattori naturali e condotta del medico.
Peraltro l’impugnante, lungi dal censurare gli esiti dell’apprezzamento del giudice di merito in punto di riconducibilità, in via esclusiva, alla condotta del sanitario, delle patologie di cui è portatore Pr.Lu., ha articolato le sue doglianze dando per scontato un presupposto che tale non era, e cioè l’incidenza di fattori naturali nell’eziologia delle stesse, il che connota le critiche in termini di aspecificità.

5. – Con il secondo mezzo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 40 e 41 c.p. , artt. 1218, 1223, 1226, 1228, 1292, 1294, 1314 e 1316 c.c. , artt. 112, 115 e 116 c.p.c. , nonchè mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, ex art. 360 c.p.c. , nn. 3 e 5.

Evidenzia che gli attori non avevano convenuto in giudizio la Casa di cura [omissis], ritenendo il P. unico ed esclusivo responsabile di quanto accaduto.
Sennonchè tutti i periti nominati sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello avevano affermato la corresponsabilità della Clinica per inadeguatezze strutturali e organizzative, rilevando che le stesse, secondo un giudizio necessariamente probabilistico, potevano avere compromesso, sia nella fase preparatoria del parto che in quella successiva, la salute del neonato.
In tale contesto, secondo l’impugnante, erroneamente la Corte d’appello, non potendo pronunciarsi (anche) nei confronti della Casa di cura, in quanto non convenuta, aveva condannato il solo medico al risarcimento integrale dei danni subiti dagli istanti, in nome di un inesistente vincolo di solidarietà tra la sua obbligazione e quella della Clinica e in violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La statuizione ignorerebbe peraltro, sul piano sistematico, che l’art. 2055 c.c. , è norma dettata in tema di responsabilità extracontrattuale e non si estende a quella contrattuale.
Secondo l’esponente, in definitiva, la parziarietà dell’obbligazione risarcitoria incombente sul medico e sulla Clinica in conseguenza dell’inadempimento di due distinti contratti da essi rispettivamente conclusi con la G., doveva imporre che il risarcimento a carico del P. venisse diminuito della percentuale di responsabilità addebitabile alla Casa di cura.

6. – Anche tali critiche non hanno fondamento.
Nel riformare la sentenza di prime cure che aveva quantificato nella misura di un terzo il livello di contribuzione della condotta del ginecologo nella produzione dell’evento lesivo, la Corte ha escluso che le inadeguatezze strutturali e organizzative del punto nascita potessero legittimare una graduazione di responsabilità di P.U..
Ha ricordato in proposito che, per giurisprudenza consolidata, quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell’estensione alla responsabilità contrattuale del disposto dell’art. 2055 c.c., quanto perchè, sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell’obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità e il concorso di più cause nella produzione dell’evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo.
Conseguentemente – ha concluso – la persona danneggiata in conseguenza di un fatto dannoso imputabile a più persone legate da un vincolo di solidarietà, può pretendere l’intero da una sola di esse, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l’eventuale, diseguale efficienza causale delle loro condotte poteva avere rilevanza solo ai fini della ripartizione interna dell’obbligazione passiva di risarcimento dei corresponsabili.

Esaminando, nell’ambito di tale ricostruzione dogmatica, l’appello incidentale degli attori nella parte in cui era volto a contestare la graduazione di responsabilità del P. nei limiti di un terzo, la Corte lo ha ritenuto meritevole di accoglimento, evidenziando che le valutazioni in ordine alla pretesa inidoneità della struttura sanitaria erano state prospettate dagli esperti nominati dal Tribunale in via meramente ipotetica ed erano pertanto prive dei necessari requisiti di specificità, mentre i consulenti nominati nel giudizio di gravame avevano individuato quali concause della patologia da cui era affetto Pr.Lu. solo l’ipossia e la cattiva utilizzazione del forcipe, escludendo il concorso di cause successive al parto.

7. – Ciò vuoi dire che, ferma l’operatività della presente decisione nei confronti delle sole parti in causa, la condanna del convenuto al pagamento dell’intero danno subito dagli attori è sorretta da due rationes decidendi, basate, l’una, sul carattere solidale dell’obbligazione risarcitoria in tesi gravante e sul medico e sulla clinica, l’altra sulla insussistenza, in concreto, di profili di responsabilità di quest’ultima.
Ora, il ricorrente ha del tutto ignorato i rilievi in ordine alla mancanza di presupposti per ravvisare nella pretesa inidoneità della struttura una concausa del danno, concentrandosi esclusivamente sulla natura parziaria della sua obbligazione.
In tale contesto le critiche non sfuggono alla sanzione dell’inammissibilità, in applicazione del principio per cui, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (confr. Cass. civ. sez. un. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. civ. 14 febbraio 2012, n. 2108).

8. – E’ il caso di aggiungere, per puro spirito di completezza, che la giurisprudenza di questa Corte, alla quale il collegio intende dare continuità, pacificamente ritiene che, in via di principio, pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la Casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attività professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il secondo, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, di natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attività terapeutiche e/o chirurgiche.

Trattasi di collegamento, per così ontologico, che dal piano fattuale assume inevitabilmente rilevanza su quello giuridico, posto che di norma, l’individuazione della Casa di cura dove il medico eseguirà la prestazione promessa costituisce parte fondamentale del contenuto del contratto stipulato tra il paziente e il professionista, nel senso che ciascun medico opera esclusivamente presso determinate cliniche e che, a sua volta, ciascuna Casa di cura accetta solo i pazienti curati da determinati medici (confr. Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
Ne deriva che deve ritenersi consustanziale al dovere di diligente espletamento della prestazione l’obbligo del medico di accertarsi preventivamente che la Casa di cura dove si appresta a operare sia pienamente idonea, sotto ogni profilo, ad offrire tutto ciò che serve per il sicuro e ottimale espletamento della propria attività; così come, reciprocamente la Casa di cura è obbligata a vigilare che chi si avvale della sua organizzazione sia abilitato all’esercizio della professione medica in generale e, in particolare, al compimento della specifica prestazione di volta in volta richiesta nel caso concreto. E tanto in applicazione del principio generale di cui all’art. 1228 c.c. , il quale comporta che il medico, come ogni debitore, è responsabile dell’operato dei terzi della cui attività si avvale, così come la struttura risponde non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa tout court incombenti, ma anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale (confr. Cass. civ. 26 giugno 2012, n. 10616; Cass. civ. 6 giugno 2014, n. 12833; Cass. civ. 14 giugno 2007, n. 13953).
Ne consegue che correttamente il convenuto è stato condannato a rifondere tutti i danni subiti dagli attori.

9 In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
La circostanza che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 8.000,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre accessori e spese generali, come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2015

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