Il rapporto di causalità tra le condotte di medici che si avvicendino nella cura del paziente – Cassazione Penale, Sezione IV, 10 gennaio 2014 n. 692

Ciascuno dei medici che, per i turni di ospedale, si avvicendino nella cura del paziente, instaura con questo una relazione terapeutica, fonte della posizione di garanzia da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita per il segmento cronologico di rispettiva competenza, sicchè non ricorre a favore del primo sanitario l’ipotesi di cui all’art. 41 comma 2 c.p. quante volte la condotta del sanitario subentrante non solo non costituisca uno sviluppo del tutto autonomo ed eccezionale della condotta inosservante del primo, ma ne costituisca una possibile, e quindi prevedibile, conseguenza, non essendo possibile qualificare come inopinata, abnorme, assolutamente imprevedibile la condotta di un soggetto, pur negligente, la cui condotta inosservante trovi la sua origine e spiegazione in quella a di chi abbia creato colposamente le premesse su cui si innesta il suo errore o la sua condotta negligente. [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIRENA Pietro Antonio – Presidente -
Dott. ROMIS Vincenzo – rel. Consigliere -
Dott. D’ISA Claudio – Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere -
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: R.G. N. IL (OMISSIS); D.R.O. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 5399/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 30/10/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/11/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Policastro Aldo, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito, per la parte civile, Avv. Frede Ettore, che chiede il rigetto o inammissibilità dei ricorsi, e deposita conclusioni e nota spese;
udito il difensore avv. Raggino Antonio, per il R., avv.ti Malinconico Gennaro e Cianciaruso Quirino, per il D.R., quali concludono per l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza.

Svolgimento del processo

1. R.G. e D.R.O. venivano tratti a giudizio e condannati dal Tribunale di Avellino alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno, per il reato di omicidio colposo loro addebitato secondo la seguente contestazione: delitto p. e p. dagli artt. 40, 113 e 589 c.p. perchè, il R. ed il D.R. nella qualità di medici in servizio presso la divisione di ostetricia e ginecologia dell’ospedale (OMISSIS), cooperando colposamente tra loro, per colpa consistita in negligenza, imperizia ed imprudenza non rilevando o comunque non tenendo nel debito conto gli evidenti segni cardiotocografici di sofferenza presentati dal feto portato in grembo da T.A. avevano omesso di porre in essere le necessarie misure terapeutiche che l’urgenza della situazione richiedeva, ossia l’effettuazione di un tempestivo taglio cesareo, ed avevano cagionato in tal modo la gravissima sofferenza anossica cerebrale che aveva determinato il decesso della piccola C.A.P. (Fatto commesso il (OMISSIS), exitus in (OMISSIS)).
Gli imputati venivano assolti dal reato di falso ideologico ad opera di pubblico ufficiale loro contestato in relazione alla compilazione della cartella clinica.
Inizialmente era stato accusato dell’omicidio colposo “de quo” anche il Dott. A.I., poi assolto in primo grado con sentenza passata in giudicato ed acquisita agli atti del presente procedimento.

2. A seguito di gravame ritualmente proposto dal dott. D.R. e dal dott. R., la Corte d’Appello di Napoli confermava l’affermazione di colpevolezza pronunciata nei loro confronti dal primo giudice, riducendo la pena a mesi otto di reclusione, confermando conseguentemente la condanna degli stessi al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
La Corte territoriale disattendeva tutte le tesi difensive, prospettate in rito e nel merito, con argomentazioni che possono così sintetizzarsi: a) correttamente il primo giudice aveva respinto la richiesta della difesa del dott. D.R. di sostituzione del consulente di parte dott. D.P.B. con il dott. D.L. A., avanzata affinchè quest’ultimo potesse essere sentito in dibattimento quale consulente di parte: ed invero la consulenza era stata espletata collegialmente con la partecipazione anche del dott. S. il quale era stato quindi sentito in dibattimento; b) non poteva trovare accoglimento la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sollecitata dalla difesa e finalizzata, per un verso, a sentire nuovamente i consulenti di parte, anche in contraddittorio con quelli del P.M., e, per altro verso, all’espletamento di una perizia collegiale; c) nel merito, la ricostruzione della vicenda consentiva di ravvisare nelle condotte degli imputati che avevano assistito la T. (prima il dott. R. e poi il dott. D.R.) – conformemente a quanto evidenziato già dal primo giudice sulla scorta delle osservazioni dei consulenti del P.M., alle cui conclusioni lo stesso giudice aveva aderito non in modo acritico – comportamenti omissivi per non aver tempestivamente adottato tecniche espulsive acceleratorie del feto, prima fra tutte il taglio cesareo che avrebbe salvato la vita alla neonata in termini di elevata probabilità, prossimi alla certezza, all’esito del giudizio controfattuale, secondo i principi enunciati nella giurisprudenza di legittimità con l’indirizzo interpretativo affermatosi a far tempo dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 30328 del 10 luglio 2002; il compendio probatorio acquisito consentiva di escludere, in particolare, che le sofferenze al feto – poi rivelatesi letali – potessero essere derivate dall’uso della ventosa cui aveva fatto ricorso il dott. A. per consentire l’espulsione del feto: nessuno dei testi escussi aveva fatto cenno ad un eventuale uso traumatico e/o prolungato della ventosa ginecologica.

3. Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, con distinti atti di impugnazione, formulando censure che possono sintetizzarsi come segue:

3.1. Ricorso dott. R. – a) vizio di motivazione sotto un duplice profilo: 1) la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di elementi probatori favorevoli alla posizione del dott. R., con particolare riferimento ai chiarimenti forniti in dibattimento dal consulente del P.M. dott. D.M. ed alle deposizioni rese dalle due ostetriche B. e D.V. circa l’asserita situazione di normalità del monitoraggio ecocardiotocografico tra le ore 20 circa e le ore 21 circa; 2) quanto emerso dalla sentenza di assoluzione del dott. A. ed il quadro probatorio acquisito nel corso dell’istruttoria dibattimentale relativa al presente procedimento, dimostrerebbero che la sofferenza fetale avrebbe avuto inizio successivamente al turno di lavoro del dott. R.;

3.2. Ricorso dott. D.R. – Sono stati presentati due atti di impugnazione, uno a firma dell’avv. Malinconico e l’altro sottoscritto dall’avv. Cianciaruso:
A) Avv. Malinconico – 1) vizio di motivazione e violazione di legge in ordine al rigetto delle eccezioni in rito sollevate dinanzi alla Corte d’Appello, con particolare riferimento al diniego della sostituzione del consulente dott. D.P. con il dott. D.L., ed al conseguente diniego dell’esame dello stesso dott. D.L. in contraddittorio con gli altri consulenti, nonchè al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale finalizzata all’espletamento di una perizia collegiale; 2) la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della circostanza – desumibile dagli atti – dell’allontanamento, tra le ore 20 e le ore 22,15/22,30, del dott. D.R. dal reparto dove si trovava ricoverata la T. per prestare assistenza ad altre pazienti in diversi reparti dell’Ospedale; 3) vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale, in relazione al principio secondo cui la condotta omissiva del medico, per legittimare una sentenza di condanna, deve porsi come condizione necessaria dell’evento con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica;
B) Avv. Cianciaruso – 1) i giudici di primo e secondo grado si sarebbero “letteralmente appiattiti” (così testualmente a pag. 2 del ricorso) sulle conclusioni dei consulenti del P.M. omettendo di confrontare criticamente dette conclusioni con le argomentazioni svolte dalla difesa con i motivi di appello con specifici riferimenti a dati scientifici, ed avrebbero altresì del tutto ignorato quanto emerso in dibattimento in sede di esame del consulente del P.M. dott. D. M. laddove questi, in risposta alle domande rivoltegli dalla difesa, avrebbe fornito precisazioni statistiche e scientifiche idonee ad avvalorare le prospettazioni della difesa (nel ricorso vengono riportate tra virgolette le parti delle risposte del dott. D.M. dal ricorrente ritenute più significative); 2) la Corte territoriale avrebbe inoltre sottovalutato oggettivi elementi fattuali, da ritenersi invece indispensabili secondo il ricorrente, ai fini di un corretto giudizio controfattuale, come, ad esempio, l’uso della ventosa e le manovre di Kristeller eseguite per consentire l’espulsione del feto, nonchè l’individuazione del momento in cui si sviluppò l’ipossia-asfissia fetale, cioè se prima del travaglio, durante il travaglio o in fase espulsiva.

Motivi della decisione

4. I ricorsi devono essere rigettati per le ragioni di seguito indicate.

4.1. Per motivi di ordine sistematico è opportuno esaminare preliminarmente le doglianze dedotte dal dott. D.R. concernenti, per un verso, il rigetto da parte del primo giudice della richiesta di sostituzione del consulente dott. D.P. con il dott. D. L. – con conseguente diniego dell’esame dello stesso dott. D. L. in contraddittorio con gli altri consulenti – e, per altro verso, il rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale finalizzata all’espletamento di una perizia collegiale.
Trattasi di censure che non colgono nel segno.

Come evidenziato dalla Corte distrettuale, il primo giudice aveva precisato che, nell’espletamento della consulenza, il consulente dott. S. era stato, in una prima fase, affiancato dal prof. D.P. (specialista, tra l’altro, in medicina legale) ed in una seconda fase, per la lettura dei tracciati, dal Prof. D.L. (Prof. Ordinario di Ginecologia e Ostetricia).
Ciò posto, la Corte d’Appello ha osservato che: la richiesta di sostituzione del consulente di parte era stata solo genericamente motivata dalla difesa; il Pubblico Ministero e la Parte Civile avevano rappresentato la loro opposizione; il diritto di difesa dell’imputato era stato pienamente garantito dalla presenza dell’altro consulente, firmatario congiuntamente al Prof. D.L. dell’elaborato peritale.
Legittimamente, dunque, la Corte stessa ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale di disattendere la richiesta difensiva di sostituzione del consulente per l’esame in dibattimento.

Per quel che riguarda la mancata rinnovazione del dibattimento, sollecitata dalla difesa con i motivi di appello e finalizzata all’espletamento di una perizia, la Corte distrettuale ha proceduto ad una valutazione di merito sottolineando la superfluità dell’incombente istruttorio richiesto dalla difesa, precisando che l’acquisito compendio probatorio consentiva di decidere allo stato degli atti; giova poi sottolineare, in proposito, che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, l’obbligo motivazionale sussiste solo allorquando la rinnovazione stessa viene disposta, potendo invece il rigetto della relativa richiesta essere implicitamente motivato: “il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare e-spressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo” (in termini, “ex plurimis”, Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010 Ud. – dep. 25/06/2010 – Rv. 247872).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno altresì precisato che “la rinnovazione del giudizio in appello è istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. Un., n. 2780/96, RV. 203974).
“Ad abundantiam”, appare altresì opportuno ricordare che questa Corte ha ripetutamente chiarito che la perizia, per il suo carattere neutro, sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice, non può farsi nemmeno rientrare nel concetto di prova decisiva, e non è, perciò, sussumibile nella previsione dell’art. 606 c.p.p., lett. d), (ex multis, Sez. 4, 22 gennaio 2007, n. 14130, Rv. 236191; Sez. 4, 5 dicembre 2003, n. 4981/2004, Rv. 2296,65; Sez. 6, 18 giugno 2003, n. 37033, Rv. 228406; Sez. 6, 12 febbraio 2003, n. 17629, Rv. 226809).

5. Esaurito l’esame delle deduzioni processuali formulate dal dott. D.R., può ora procedersi al vaglio dei motivi di ricorso dei due imputati concernenti la ritenuta colpevolezza degli stessi: trattasi di censure che – con riferimento alla posizione di garanzia in relazione ai ruoli dei due sanitari, succedutisi nell’assistenza alla paziente T.A. (prima il dott. R. e poi il dott. D.R.), ed al nesso di causalità tra le rispettive condotte e l’evento – ben possono formare oggetto di valutazione unitaria in quanto strettamente connesse, ed al fine di evitare superflue ripetizioni.

La vicenda che ne occupa è stata ricostruita dai giudici di merito, dal punto di vista fattuale, e per la parte che in questa sede rileva con specifico riferimento alla posizione degli imputati ricorrenti, come segue.
Nel pomeriggio del (OMISSIS) la sig.ra T. A. – in avanzato stato di gravidanza e prossima al parto – si trovava ricoverata presso l’ospedale “(OMISSIS)” di (OMISSIS) dove era giunta nella notte precedente in seguito alla rottura prematura delle membrane; nel corso di quel pomeriggio vennero disposti accertamenti ed esami strumentali e già alle ore 18,30, allorquando in reparto era di turno il dott. R., il quarto tracciato cardiotocografico (dopo tre tracciati di tipo fisiologico) si presentava preoccupante per la presenza di sospette decelerazioni; conclusosi il quarto tracciato alle ore 18,55, il dott. R. sottopose nuovamente a monitoraggio la paziente a partire dalle 19,30, e tale (quinto) tracciato, della durata di 73 minuti, presentava numerose decelerazioni sin dai primi minuti e – come poi riferito dai consulenti del P.M. in sede di indagini a seguito del decesso della neonata – si trattava di un tracciato “di allarme prognosticamente grave, che deve indurre decisioni operative immediate per la salvaguardia del benessere fetale” (pag. 16 della sentenza di primo grado); al dott. R., il cui turno di lavoro era previsto fino alle ore 20, era poi subentrato il dott. D.R., e, secondo il parere espresso dai consulenti del P.M., altrettanto grave si presentava il sesto tracciato cardiotocografico con numerose decelerazioni e discesa della frequenza cardiaca fetale fino a 90 b.p.m. e netta riduzione della variabilità interna; verso le ore 22 il dott. D.R. – secondo le sue dichiarazioni – si era deciso a procedere a taglio cesareo, ma fu dissuaso dal primario dott. A. il quale, informato telefonicamente della situazione in atto, si recò in ospedale e provvide all’estrazione del feto utilizzando la ventosa ostetrica; il dott. A., nei cui confronti pure era stata elevata l’imputazione di omicidio colposo per la morte della neonata, è stato assolto, per insussistenza del fatto, con sentenza del Tribunale di Avellino in data 7 aprile 2011, passata in giudicato ed acquisita agli atti: in tale sentenza si legge che, sulla base delle indicazioni fornite dai medici legali, l’antecedente causale della morte della piccola A.P. era da ravvisarsi non in negligenza, imprudenza e/o imperizia dell’ A., o dei suoi assistenti nell’espletamento del parto, “bensì nell’insensata attesa di circa tre ore”, non ascrivibile all’ A., senza provvedere a parto cesareo pur in presenza di evidenti segni di sofferenza fetale, da cui era derivata “una gravissima sofferenza anossica cerebrale con consequenziale decesso, avvenuto per polmonite terminale acuta a focolai multipli confluenti in evoluzione ascessuale” (pag. 5 della sentenza citata).

5.1. Così ricostruita la vicenda, non sussiste dubbio alcuno circa la ravvisabilità di elementi di colpa nelle condotte (omissive) del dott. R. e del dott. D.R., con riferimento alla relazione terapeutica instauratasi da ciascuno dei due – per il segmento cronologico di rispettiva competenza per i turni in ospedale – con la paziente T.A.: come precisato in giurisprudenza (Sez. 4, n. 10819 del 04/03/2009 Ud. – dep. 11/03/2009 – Rv. 243874), la relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita.

I consulenti del P.M. – le cui indicazioni i giudici di merito hanno fatto proprie, con le valutazioni di cui appresso si dirà – hanno sottolineato che già durante il turno di lavoro del dott. R. le risultanze degli esami strumentali (divenute poi ancor più allarmanti allorquando il dott. D.R. subentrò al collega R.) erano tali da dover indurre il sanitario a procedere immediatamente, senza indugio, al parto della sig.ra T. con taglio cesareo.
In definitiva, non può esservi dubbio – e di ciò i giudici di merito hanno fornito adeguata dimostrazione – che l’exitus della neonata (che ebbe come causa prossima una gravissima insufficienza respiratoria, alla base dello stato di anossia cerebrale che aveva determinato lesioni irreversibili al cervello) avvenne come conseguenza dello stato di sofferenza del feto che era stato chiaramente denunziato dagli accertamenti compiuti dallo stesso dott. R. e che costui palesemente sottovalutò e male interpretò, addirittura lasciando che trascorressero ben 35 minuti (dalle ore 18,55 alle ore 19,30) prima di disporre un’ulteriore cardioto-cografia (la quinta), laddove la situazione imponeva un monitoraggio costante, senza soluzione di continuità: la macroscopica erronea sottovalutazione dei tracciati cardiotocografici (che avevano già segnalato sospette decelerazioni) e la mancata effettuazione di una continua ed attenta osservazione della partoriente comportarono gravi ritardi nel venire alla luce del feto.

Mette conto sottolineare in proposito che il tracciato del quinto esame cardiotoco-grafico (iniziato alle 19,30 quando il dott. R. era ancora in servizio) presentava ormai numerose decelerazioni sin dai primi minuti (dunque prima delle ore 20, vale a dire in un segmento temporale che vedeva ancora il dott. R. presente in ospedale ed impegnato ad assistere la partoriente) e – come poi precisato dai consulenti del P.M. – si trattava di un tracciato “di allarme prognosticamente grave, che deve indurre decisioni operative immediate per la salvaguardia del benessere fetale” (pag. 16 della sentenza di primo grado), come innanzi si è già avuto modo di ricordare.

Circostanze fattuali che non risultano in alcun modo contrastate nè intaccate nella loro valenza probatoria dalle osservazioni formulate nel ricorso del dott. R. con il richiamo alle precisazioni fornite dai consulenti in dibattimento ed al percorso motivazionale seguito nella sentenza di assoluzione del dott. A..

5.2. Tutto quanto fin qui osservato vale ovviamente anche – ed a maggior ragione – per il dott. D.R.: questi, in presenza di segnali di sofferenza ancor più significativi ed inequivocabili rispetto a quelli (sia pure già di allarme) espressi dai tracciati cardiotocografici visionati dal dott. R., avrebbe dovuto procedere immediatamente al taglio cesareo, senza alcun indugio, e senza bisogno di attendere oltre per consultarsi telefonicamente con il primario e restare poi in attesa dell’arrivo di quest’ultimo; a tale riguardo giova ricordare il seguente principio enunciato da questa Corte che appare pertinente anche in relazione al caso in esame: “l’assistente ospedaliero collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, deve seguire le direttive organizzative dei superiori, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvede direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perchè, qualora ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso e, solo a fronte di tale condotta, potrà rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo atteggiamento.” (in termini, Sez. 4, n. 7363 del 28/06/1996 Ud. – dep. 22/07/1996 – Rv. 205829; in tal senso anche Sez. 4., n. 556 del 2000).

6. Così individuati ben precisi profili di colpa nella condotta di entrambi i sanitari, va esaminato, per completezza argomentativa, l’aspetto relativo alla causalità nell’ipotesi di successione delle posizioni garanzia. Occorre cioè stabilire se la condotta del dott. D.R., subentrato al dott. R. nel turno di lavoro in ospedale, ha interrotto il rapporto di causalità tra la condotta del dott. R. e l’evento. La risposta al quesito così formulato è negativa.

Perchè possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione come altrimenti si dice) si deve trattare di un percorso causale ricollegato all’azione (od omissione) dell’agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta. Orbene, non è possibile qualificare come inopinata, abnorme, assolutamente imprevedibile la condotta di un soggetto, pur negligente, la cui condotta inosservante trovi la sua origine e spiegazione nella condotta di chi abbia creato colposamente le premesse su cui si innesta il suo errore o la sua condotta negligente.
Inoltre la condotta colposa del dott. D.R. che subentrò al collega dott. R. al cambio di turno, non può essere ritenuta abnorme o imprevedibile perchè non è eccezionale la condotta di un medico che affronti senza l’osservanza delle regole dell’arte medica il caso sottopostogli; tanto più se il medico tragga spunto e giustificazione della sua condotta inosservante proprio nella precedente analoga condotta di altro soggetto.
Era certamente obbligo del dott. D.R., che era subentrato al dott. R., di approfondire quegli aspetti che erano stati omessi dal primo medico, ma eccezionale e imprevedibile non è certo la condotta di chi si adegua ad una condotta negligente da altri tenuta.

Insomma nel caso in esame non può ipotizzarsi l’ipotesi prevista dall’art. 41 c.p., comma 2 perchè la causa sopravvenuta – vale a dire il comportamento del dott. D.R. – non solo non costituisce uno sviluppo del tutto autonomo ed eccezionale della prima condotta inosservante ma rientra nell’ambito delle conseguenze prevedibili di questa condotta addebitabile al dott. R. di cui costituisce una possibile, e quindi prevedibile, conseguenza.

In tal senso ha avuto già più volte modo di esprimersi questa Corte, nel solco di un consolidato indirizzo interpretativo efficacemente compendiato nel principio così massimato: “In tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione; sì che ove, anche per l’omissione del successore, si produca l’evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, l’evento stesso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l’evento” (Sez. 4, n. 8006 del 26/05/1999 Ud. – dep. 18/06/1999 – Rv. 214248; conf.: Sez. 4, n. 11444 del 01/10/1998 Ud. – dep. 03/11/1998 – Rv. 212140).

7. Per quel che riguarda le valutazioni dei giudici di merito in ordine alle conclusioni dei consulenti – poste a base dell’affermazione di colpevolezza e della ritenuta sussistenza del nesso causale – è infondata la tesi della difesa del dott. D.R. secondo cui i giudici stessi si sarebbero “appiattiti” sulle conclusioni dei consulenti del P.M. senza confrontarsi con le deduzioni dei consulenti di parte.
La Corte territoriale ha fatto esplicito riferimento alle diverse prospettazioni medico-legali, dell’accusa e della difesa, in ordine ai dati cronologici ed al nesso di derivazione eziologica, determinante le irreversibili lesioni al feto, lesioni che avevano poi portato al decesso della neonata, evidenziando che entrambe le prospettazioni risultavano ampiamente argomentate e ricche di riferimenti alla letteratura scientifica.
La Corte stessa ha quindi ricordato che i rispettivi consulenti delle parti erano stati esaminati in dibattimento, in contraddittorio, fornendo tutte le precisazioni e le delucidazioni necessarie, ed ha sottolineato che gli acquisiti elementi probatori, valutati unitamente alle altre risultanze istruttorie – quali emergenze documentali e prove testimoniali – erano tali da consentire di esprimere compiutamente un giudizio, senza margini di incertezza: a ciò dovendo aggiungersi che, sulla medesima vicenda, era nelle more intervenuto un giudicato di assoluzione nei confronti del dr. A.I., direttore della U.O.C. (Unità Operativa Complessa) di Ostetricia e Ginecologia dell’Azienda ospedaliera (OMISSIS), e detta sentenza, che includeva verbali integrali di deposizioni testimoniali, era stata acquisita agli atti ed offriva elementi utili per la ricostruzione globale del fatto storico.

Orbene trattasi di motivazione sostanzialmente congrua, priva di sbavature argomentative e di connotazioni di illogicità.
Giova innanzi tutto ricordare che questa Corte ha affermato, e reiteratamente ribadito, che, in tema di prova, costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie, l’apprezzamento, positivo o negativo che sia, dell’elaborato peritale (o di un consulente) e delle relative conclusioni: il giudice del merito può attenersi alle conclusioni del perito (o di un consulente), ove le condivida, rimettendo al suo elaborato il relativo supporto razionale; nel caso contrario, il giudice del merito ha obbligo di motivare il dissenso ed evidenziare gli elementi in contrasto sulla base dei quali ritenga di ripudiare l’atto processuale di valutazione critico-probatoria.
Nulla impedisce al giudice, dunque, di procedere autonomamente alla relativa indagine e pervenire ad un convincimento diametralmente opposto rispetto alle conclusioni del perito (o del consulente): con la conseguenza che, in quest’ultima ipotesi, ed ove il giudice del merito abbia congruamente e logicamente motivato le ragioni del dissenso, rimane preclusa in sede di legittimità qualsiasi rivalutazione della decisione.
Certo, il giudice di merito ha l’obbligo di motivare il proprio convincimento con criteri che rispondano ai principi scientifici oltrechè logici. Ma è altresì certo che il giudice stesso può fare legittimamente propria, allorchè gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purchè, come detto, dia congrua ragione della scelta, e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire.

Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sè, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della perizia (o della consulenza), poichè la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento (così, “ex plurimis”, Sez. 5, n. 10835 del 08/07/1988 Ud. – dep. 11/11/1988 – Rv. 179651).

Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, laddove la Corte distrettuale ha raccolto le indicazioni dei consulenti del P.M. dott.ri Z. (medico legale che aveva eseguito l’autopsia) e D. M., le ha confrontate con le deduzioni dei consulenti di parte esprimendo infine – anche sulla basse delle prove testimoniali acquisite e delle emergenze cliniche e documentali (tra cui i tracciati cardiotocografici) – il proprio motivato convincimento.
Nè i giudici di seconda istanza hanno mancato di vagliare specificamente la tesi difensiva – ancorata, in particolare, ad un ematoma subgaleale la cui presenza era stata riscontrata in sede di autopsia – secondo cui la causa dell’evento avrebbe dovuto essere individuata nell’applicazione traumatica o comunque protrattasi nel tempo della ventosa ostetrica e di un utilizzo ripetuto delle manovre di Kristeller per favorire l’espulsione del feto.
A tale ultimo proposito, la Corte distrettuale ha riportato le indicazioni fornite dai consulenti del P.M. i quali – come già sottolineato dal Tribunale – avevano escluso che una marcata totale ipodensità del parenchima encefalico potesse essere stata provocata dalla ventosa e si erano così espressi” altro è, infatti l’edema cerebrale cortico- sottocorticale, espressivo di un danno in sè del tessuto cerebrale; altro è l’ematoma subgaleale (…….) che concerne invece la parte della teca, al di sotto della galea capitis”; e la Corte ha proseguito precisando che il dott. Z. aveva spiegato che l’ematoma poteva pur essere un residuo dell’uso della ventosa ma non aveva avuto alcun determinismo quanto ad un’eventuale ipossia del cervello, che sta al di sotto del cranio, cioè al di là dell’osso, al disotto della pia madre (pag. 10 della sentenza).

Muovendo da siffatti presupposti fattuali, scientifici e probatori, la Corte territoriale è pervenuto al giudizio finale di ritenuta sussistenza del nesso causale affermando che: a) la diagnos, non tempestiva dei sanitari era stata causa della gravissima insufficienza respiratoria che a sua volta aveva determinato lo stato di anossia cerebrale che aveva determinato lesioni irreversibili al cervello della neonata, fino a condurla alla morte; b) analizzata la condotta emissiva colposa dei due sanitari, ed effettuato il giudizio controfattuale, poteva affermarsi che, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), questa avrebbe evitato il verificarsi dell’evento lesivo “al di là di ogni ragionevole dubbio” (pagine 10-11 della sentenza impugnata).
Così risultando confermato l’analogo giudizio espresso dal primo giudice il quale, nel processo di derivazione causale alla base del decesso della piccola C.A., si era attenuto a quanto descritto dai consulenti nominati dal P.M. (dottori Z. e D.M.) in termini di elevata probabilità molto vicini alla certezza (pag. 7 della sentenza impugnata).

8. Al rigetto dei ricorsi segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali; i ricorrenti vanni altresì condannati in solido a rifondere alle parti civili C. G. e T.A. le spese di questo giudizio che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, C.G. e T. A., che liquida in complessivi Euro 3.000,00 oltre I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2014

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