Omicidio e dolo eventuale – Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 24217 del 4 giugno 2013

Risponde di omicidio a titolo di dolo eventuale chi, pur ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e nonostante ciò agisca accettando il rischio di cagionarle, ovvero, pur non mirando ad un evento mortale come proprio obiettivo intenzionale, abbia tuttavia previsto come probabile – secondo un normale nesso di causalità – la verificazione di un siffatto evento lesivo, accettandone, con l’agire (o l’omettere di agire), il rischio della sua verificazione, in tal caso dovendosi escludere sia l’ipotesi della colpa cosciente, che presuppone la fiducia che l’evento esiziale non si verifichi, sia la preterintenzione, che presuppone che l’agente avesse realmente di mira solo l’obiettivo primario della propria condotta (nella specie l’imputato aveva chiuso e compresso nel divano letto la propria compagna, in stato di grave ed evidente malessere per ebbrezza alcolica, abbandonandola al suo destino e solo tardivamente chiamando i soccorsi). [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIOTTO Maria Cristin – Presidente -
Dott. ROMBOLA’ Marcello – rel. Consigliere -
Dott. CASSANO Margherita – Consigliere -
Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere -
Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: D.M.D. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 14/2011 CORTE ASSISE APPELLO di MILANO, del 31/01/2012;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/03/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARCELLO ROMBOLA’;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Giovanni D’Angelo, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata relativamente alla valutazione sul dolo;
Udito, per la parte civile, l’Avv.to Paolo (Ndr: testo originale non comprensibile) (conferma della sentenza);
Udito il difensore Avv.to Ciancia Giuseppe (accoglimento del ricorso).

Svolgimento del processo

Con sentenza 31/1/12 la Corte di Assise di Appello di Milano confermava la sentenza 7/10/10 del Gup del Tribunale della stessa città, che in esito a giudizio abbreviato, con la diminuente del rito, condannava D.M.D. alla pena di anni 14 di reclusione per il reato (in (OMISSIS)) di omicidio in danno di D. T.M.F., che il D.M. chiudeva in un divano letto dal quale la vittima non era in grado di tirarsi fuori, lasciandola in tale condizione fino al decesso per soffocamento.
Confermate le disposizioni accessorie e quelle risarcitorie in favore delle parti civili costituite, madre e sorella della vittima.
Il fatto si verificava nel primo pomeriggio nel monolocale dove viveva la vittima.
Era lo stesso D.M., che ne era il fidanzato, a chiamare il 118, a suo dire dopo avere constatato che la donna (che come solitamente accadeva era ubriaca), sdraiata sul divano letto (“si nascondeva nel divano letto”, dice l’uomo), si faceva improvvisamente pallida e perdeva i sensi nonostante il bicchier d’acqua che le gettava sul viso. Poi usciva, dovendo a suo dire recarsi a un colloquio di lavoro. Incontrava però l’amico C. D., che sollecitava ad andare a controllare lo stato della donna, ed era ancora sul posto quando arrivava l’autoambulanza.
La D.T. (che da viva era certamente in grave stato di alterazione alcolica) era trovata esanime, con ecchimosi sul viso (che il teste C. non le aveva visto quando la mattina l’aveva incontrata al bar sotto casa in compagnia del D.M.), il tronco compresso tra le due parti sollevate del divano letto. La consulenza cinematica disposta sul mobile accertava l’impossibilità di una sua chiusura accidentale o auto-indotta da chi vi si trovasse sdraiato.
Di qui l’imputazione a carico del D.M., noto come soggetto violento ed unica persona a trovarsi in casa con la vittima (incongrua la sua spiegazione dei fatti ed intesa a precostituirsi un alibi, secondo gli inquirenti, la chiamata al 118 e l’allarme manifestato con il C.; due mesi dopo, nel corso di una lite con un’altra donna con cui era stato fidanzato negli anni precedenti, tale A.E., l’aveva minacciata di ammazzare “anche” lei).
L’accusa era quella di avere agito con dolo eventuale, chiudendo il divano e comprimendo al suo interno la vittima e non facendo poi nulla per toglierla da quello stato, limitandosi a chiamare tardivi e inutili soccorsi.

Ricorreva per cassazione la difesa. Riassunti i motivi di doglianza, specificamente deduceva: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla condotta omicida commissiva imputata al D.M., dalle CTU non risultando alcun segno, esterno o interno, dello schiacciamento del torace della donna e la sua morte ben potendo essere attribuita ad una depressione su base alcolica dei centri respiratori, aggravata o meno da un’ostruzione meccanica del respiro data dalla peculiare posizione del corpo all’interno del letto semichiuso, che dalle stesse foto si vede peraltro coprire solo le gambe e il bacino del cadavere; inoltre non era dato sapere se la donna fosse ancora viva al momento della chiusura del divano, la sentenza di appello ricavandolo in modo contraddittorio dalle parole, che per altro verso scredita, del D.M., che al 118 parla di una donna incosciente e non morta;
2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla condotta omicida omissiva imputata al D. M., posto che egli non abbandonò la donna, ma rimase irv strada in attesa dei soccorsi da lui stesso chiamati;
3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al ritenuto dolo eventuale, contraddetto dalla condotta successiva del D.M. che chiama il 118 e cui, allora, può logicamente attribuirsi o una callida volontà omicida (dolo diretto) o, al più, un atteggiamento negligente (colpa);
4) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale;
5) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata qualificazione del fatto come omicidio colposo (cosciente o meno); 6) violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Chiedeva pertanto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

Alla pubblica udienza fissata per la discussione il PG concludeva per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata (circa il dolo), la difesa di parte civile per la conferma della stessa, la difesa dell’imputato per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso, infondato, va rigettato.
Il dolo eventuale, per tradizionale e condivisa giurisprudenza (per tutte v. Cass., S.U., sent. n. 3571 del 14/2/96, rv. 204167, Mele), si ravvisa allorquando “l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle”. Ma già in precedenza si era affermato (Cass., sez. 1, sent. n. 3766 del 21/12/93, dep. 1994, rv. 197756), e poi ancora successivamente, secondo un costante insegnamento, che “sussiste il dolo del delitto di omicidio allorquando l’agente, pur non mirando ad un evento mortale come proprio obiettivo intenzionale, abbia tuttavia previsto come probabile – secondo un normale nesso di causalità – la verificazione di un siffatto evento lesivo, accettandone, con l’agire in presenza di tale situazione soggettivamente rappresentatasi, il rischio della sua verificazione”.

La distinzione è talora dalla colpa cosciente: “Il dolo eventuale presuppone che l’agente abbia superato il dubbio circa la possibilità che la condotta cagioni anche un evento non direttamente voluto, ed abbia tenuto la condotta anche a costo di cagionare quell’evento, accettandone quindi il prospettato verificarsi; diversamente, la colpa con previsione (o cosciente) sussiste quando l’agente, pur prospettandosi la possibilità o probabilità del verificarsi di un evento non voluto come conseguenza della propria condotta, confidi tuttavia che esso non si verifichi” (Cass., 1, n. 30472 dell’11/7/11, rv. 251484), più spesso dal dolo diretto: “Il dolo eventuale sussiste quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciò nonostante agisca, accettando il rischio di cagionarle; il dolo è invece diretto nel caso in cui vi sia la probabilità della verificazione di tali conseguenze e, ciò nonostante, l’agente ponga in essere la condotta” (Cass., 6, sent. n. 1367 del 26/10/06, dep. 2007, rv. 235789).

Nel caso in esame il giudice di merito ha correttamente e motivatamente ravvisato non il dolo diretto (tanto meno la colpa), ma il dolo eventuale.
Premesso che dalla CT disposta dal Pm è emerso che non era possibile la chiusura volontaria o involontaria del divano letto (aperto) da parte di una persona che vi si trovasse sopra (e che essa, una volta incastrata, non avrebbe avuto serie possibilità di riaprirlo) e che il divano letto carico, se lasciato a se stesso nella fase di chiusura dopo aver vinto la resistenza iniziale, tendeva a chiudersi, si deve dedurre che nella insolita e pericolosa posizione di schiacciamento all’interno del divano letto in cui la D.T. fu trovata (già per sè in pessime condizioni psico-fisiche) non si mise da sola ma fu messa da altri e segnatamente dal D.M. che era il solo ad essere con lei nell’appartamento.
Ed è lo stesso D.M. (nel suo primo interrogatorio come indiziato di reato del 22/6/09: si veda nella prima sentenza a pag. 4) ad esprimere la noncuranza e l’irrisione avuta nel frangente per la donna, che “mandava a quel paese” nonostante la vedesse collassata e bianca in volto, affetta da conati di vomito e sangue e gesticolante con le mani, per tutta risposta chiamandola scema e gettandole in faccia un bicchiere d’acqua “in segno di spregio”. Poi si allontanava lasciandola in quelle condizioni, limitandosi a chiamare il 118 e a restare nei pressi, informando il C. (amico della donna) che quella stava male.

Dalle sentenze di merito si apprende poi che più testi riferiscono della natura violenta e litigiosa del D.M. (lo stesso C. D., tale R.A.; in una conversazione telefonica intercettata alcune settimane dopo i fatti è il C. a confidare alla madre della vittima che la figlia ne aveva paura, vivendo nel terrore che prima o poi l’avrebbe ammazzata); A. E., che in passato aveva avuto una relazione col D.M. (che questi intendeva riallacciare già pochi giorni dopo la morte della D.T.), riferisce di esserne stata minacciata, una volta con l’espressione “ti ammazzo anche a te”.

Se quella sopra riferita è dunque la ricostruzione dei fatti, le avverse deduzioni di merito della difesa si appalesano, come tali, inammissibili e comunque del tutto infondate: sostanzialmente convergenti, infatti, le cause della morte stabilite in sentenza sulla base degli accertamenti autoptici e medico legali (“asfissia posizionale e compressione meccanica del torace”) e quelle ipotizzate dal ricorrente (depressione su base alcolica dei centri respiratori, solo eventualmente aggravata da una ostruzione meccanica del respiro data dalla pozione del corpo all’interno del letto semichiuso).
Resta il contributo causale (o concausale) del D.M., che (con condotta commissiva) mise la donna nella posizione di compressione e ostruzione fisica che ne causò la morte e, nonostante l’evidente e allarmante precarietà delle sue condizioni (omettendo quindi un doveroso e immediato soccorso), la lasciò al suo destino.

La qualificazione della condotta, come accertata, è tema di diritto.
Correttamente il giudice di merito ha ravvisato, in primo e in secondo grado, il dolo eventuale: il D.M. (vedi le massime sopra citate), ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi (la chiusura della donna nel divano letto per spregio o irrisione), si è (ben presto) rappresentato la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, ha agito (omettendo una immediata condotta di soccorso, a quel punto dovuta) accettando il rischio di cagionarle. Ovvero, pur non mirando ad un evento mortale come proprio obiettivo intenzionale, ha tuttavia previsto come probabile – secondo un normale nesso di causalità – la verificazione di un siffatto evento lesivo, accettandone, con l’agire (o l’omettere di agire) in presenza di tale situazione soggettivamente rappresentatasi, il rischio della sua verificazione.
Una sostanziale indifferenza alla sorte della donna, con l’apatica attesa dell’altrui intervento, caratterizza il caso in esame (il confine è col dolo alternativo, non certo con la colpa cosciente, che presuppone la fiducia che l’evento esiziale non si verifichi).

Per ugual motivo è da escludere la preterintenzione, lo stato di palese pericolo di vita in cui versava la D.T. al momento del suo abbandono da parte del D.M. impedendo di ritenere che egli avesse di mira solo la perpetuazione di uno stato di malessere.

Anche in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche (così come per tutte le altre doglianze contenute nei motivi di ricorso) il giudice di appello ha congruamente e correttamente motivato (richiamando e raffigurando nel suo complesso la negativa personalità dell’imputato).

Al rigetto del ricorso segue (art. 616 c.p.p.) la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese (come liquidate) sostenute per questo grado del giudizio dalla parte civile concludente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione dette spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile P.O. che liquida in complessivi Euro 3.000 (tremila), oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2013

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