Bancarotta documentale impropria e circostanze aggravanti – Cassazione Penale, Sez. V, 3 luglio 2013 n. 28691

Nonostante un unico precedente contrario della Suprema Corte (Cass. sez. V 8829/2009), isolato e non costituente diritto vivente, si applica anche alla bancarotta fraudolenta patrimoniale documentale impropria la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 219 Legge Fallimentare, poichè il richiamo dell’art. 223 comma 1 L.F. all’art. 216 L.F. implica che le le differenze strutturali tra la bancarotta propria e quella impropria non attengano al dato oggettivo della condotta, con la conseguenza che la determinazione della pena debba avvenire alla stregua dell’art. 216 e quindi con le eventuali aggravanti ed attenuanti “speciali” ivi previste (la Suprema Corte specifica inoltre, fornendo propria ampia interpretazione di Cass. S.U.21039/2011, che gli artt. da 223 a 226 L.F., i quali estendono le pene previste per l’imprenditore individuale agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori delle società dichiarate fallite, pur richiamando espressamente gli artt. 216, 217, 218 e 220, ma non il 219, non lo rendono inapplicabile alla bancarotta impropria, atteso che si tratta di norma da essi non richiamata solo perchè contempla delle semplici circostanze). [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PALLA Stefano – Presidente -
Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere -
Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere -
Dott. DEMARCHI ALBENGO P. – rel. Consigliere -
Dott. LIGNOLA F. – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: T.G. N. IL (OMISSIS); L.E. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 988/2011 CORTE APPELLO di FIRENZE, del 15/12/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/06/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO;
Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Gabriele Mazzotta, ha concluso chiedendo per il T. il rigetto del ricorso e per il L. la declaratoria di inammissibilità.
Per la parte civile è presente l’Avvocato Vanni Mauro, il quale conclude chiedendo rigettarsi il ricorso e confermarsi il provvedimento impugnato. Deposita nota spese.
Per il ricorrente T.G. è presente l’Avvocato Di Maio, il quale chiede l’accoglimento del ricorso.
Per il ricorrente L.E. è presente l’Avvocato Colombini, il quale chiede l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. T.G. e L.E., imputati di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sono stati condannati alle pene di legge dal tribunale di Pisa; la Corte d’appello di Firenze ha confermato la statuizione di condanna nei confronti del T. (operando però una riduzione di pena), mentre ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di L.E. per intervenuta prescrizione del reato (non aggravato ai sensi dell’art. 219, L. Fall.). Nei confronti di entrambi sono stati confermati i capi civili della sentenza.

2. Contro la sentenza di appello propongono ricorso entrambi gli imputati per i seguenti motivi: T.G. deduce:
a. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 157 c.p.p., n. 8 bis, artt. 161, 164, 179 e 185 cod. proc. pen., nella parte in cui ha ritenuto non più valida l’elezione di domicilio effettuata dall’imputato prima dell’archiviazione e dunque prima della riapertura delle indagini preliminari.
b. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 157 c.p.p., n. 8 bis, artt. 161, 164 e 179, art. 319 c.p.p., comma 7 e art. 185 cod. proc. pen., nella parte in cui ha ritenuto validamente effettuata la notifica al difensore di fiducia ex art. 157, n. 8 bis, pur in presenza di elezione di domicilio effettuata dall’indagato.
c. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 216, 219 e 223, L. Fall., per la ritenuta applicabilità dell’aggravante speciale del danno patrimoniale di rilevante gravità alla bancarotta fraudolenta impropria.

3. L.E. deduce:
a. erronea applicazione degli artt. 110, 216 e 223, L. Fall., nonchè omessa o contraddittoria motivazione sul punto.
b. Erronea applicazione degli artt. 216 e 223, L. Fall.; violazione dell’art. 192 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. E; omessa o contraddittoria motivazione. Violazione e falsa applicazione delle norme civilistiche in tema di amministratore della società a responsabilità limitata (art. 2475 ss.).
c. Erronea applicazione degli artt. 216 e 223 L. Fall. circa l’esistenza dell’elemento oggettivo del reato.
d. Erronea applicazione dell’art. 42 c.p. in relazione al reato contestato; omessa o contraddittoria motivazione.
e. Erronea applicazione della legge penale sul risarcimento del danno in favore della parte civile e sulla condanna alle spese di quest’ultima; omessa motivazione sul punto.

Motivi della decisione

1. Il ricorso di T.G. è infondato; quanto al primo motivo costituisce questione da affrontare preliminarmente quella relativa alla persistente validità ed efficacia – dopo la riapertura delle indagini – dell’elezione di domicilio compiuta nell’ambito di un procedimento archiviato.
La questione, però, merita risposta negativa, atteso che dalla riapertura delle indagini deriva un procedimento formalmente nuovo, come evidenziato dalla necessità di procedere a nuova iscrizione a norma dell’art. 335 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 1, n. 27672 del 21/06/2007, Pranno, Rv. 237060; conf. Sez. 6, 10/10/2001, n. 36723).

2. D’altronde, l’elezione o dichiarazione di domicilio sono valide ed efficaci unicamente nell’ambito del procedimento nel quale sono state effettuate, mentre non spiegano alcun effetto nell’ambito di altri procedimenti, sia pure geneticamente collegati a quello originario (Sez. 6, n. 49498 del 15/10/2009, Santise, Rv. 245650; conf. Sez. 3, n. 36051 del 25/09/2002, Rv. 223056; Sez. 5, n. 3330 del 09/06/2000, Raffione Ortega, Rv. 217246).

3. Esclusa la validità della precedente elezione di domicilio, perdono rilievo le ulteriori questioni sollevate nei motivi 1 e 2.

4. E’ parimenti infondata la questione relativa alla applicabilità dell’aggravante del danno di rilevante gravità di cui all’art. 219, L. Fall. alla bancarotta impropria. Corrisponde a verità che questa stessa sezione della Corte ha recentemente affermato che non è applicabile la circostanza aggravante ad effetto speciale del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all’art. 219, comma 1, L. Fall., all’ipotesi di bancarotta documentale fraudolenta impropria, stante il richiamo letterale dell’art. 219, comma 1, L. Fall., circoscritto agli art. 216, 217 e 218, L. Fall. (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 8829 del 18/12/2009, Rv. 246154); tuttavia non può parlarsi di vero e proprio contrasto, che imporrebbe la rimessione alle sezioni unite, trattandosi di una pronuncia isolata che si inserisce nell’ambito di un orientamento consolidato in senso contrario (tra le più recenti si vedano Sez. 5, n. 10791 del 25/01/2012, Bonomo, Rv. 252009; Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Rv. 251215, Pisani; Sez. 5, Sentenza n. 127 del 08/11/2011, Rv. 252664, Pennino; Sez. 5, Sentenza n. 30932 del 22/06/2010, Rv. 247970 e Sez. 5, Sentenza n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247320, mentre per il passato si possono vedere Cass. Sez. 5, 29 novembre 1968, Solare, CED Cass. 110171; Cass. Sez. 5, 27.4.1992, Bertolotti, CED Cass. 191564).
L’arresto di questa sezione del 2009 ha rammentato che la bancarotta cd. “impropria” si presenta come reato a diversa struttura rispetto alla fattispecie “propria”, sicchè mancando, nell’art. 223, il rinvio all’art. 219, non sarebbero applicabili ai soggetti di cui all’art. 223 le predette aggravanti, non potendosi operare un’interpretazione analogica, vietata dal divieto di analogia in malam partem in ambito penale (risolvendosi l’operazione ermeneutica in una lettura sfavorevole al reo). Ma all’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 219 non si giunge percorrendo la via dell’interpretazione analogica, bensì tramite una semplice operazione ermeneutica di tipo sistematico ed, al più, con una interpretazione di tipo estensivo; si vuole dire che l’applicabilità dell’aggravante per la bancarotta impropria deriva direttamente dalla sua disciplina normativa e non si ricava invece in via di integrazione analogica di una disciplina carente. Innanzitutto si devono distinguere le ipotesi previste dall’art. 223, comma 1 da quelle del comma successivo; mentre in quest’ultima norma vengono introdotte nuove fattispecie di reato, per le quali il rinvio all’art. 216 è solo quoad poenam, nel primo comma vengono sanzionate le stesse condotte previste dall’art. 216, con l’unica differenza che in questo caso sono realizzate da soggetti diversi dall’imprenditore, sebbene in qualche modo legati all’amministrazione dell’ente collettivo. Ne consegue che le differenze strutturali tra la bancarotta propria e quella impropria di cui all’art. 223 comma 1 sono minime e non attengono al dato oggettivo della condotta; ne conseguirebbe, pertanto – seguendo l’interpretazione propugnata dal ricorrente – una ingiustificata disparità di trattamento a favore degli amministratori degli enti collettivi, tanto più irragionevole se sì pensa che le più vaste dimensioni dell’impresa societaria comportano normalmente una maggiore gravità e diffusività delle conseguenze dannose del reato di bancarotta, anche a causa del più elevato dinamismo e della più intensa pericolosità degli organismi societari, capaci di ledere molteplici interessi. E’ ben vero che una tale considerazione di ordine logico non sarebbe sufficiente a scalfire una chiara disposizione normativa in senso contrario, ma nel caso in esame vi è la possibilità di operare un’interpretazione non solo costituzionalmente orientata, bensì anche più aderente al dato sistematico. Ebbene, l’art. 223, comma 1 dice che agli amministratori (…) di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nell’art. 216, si applicano le pene ivi stabilite. Ciò significa che la determinazione della pena per i reati commessi ai sensi dell’art. 223, comma 1 si deve operare con riferimento a quanto previsto dall’art. 216 per la bancarotta propria; ma le pene per la bancarotta propria si determinano tenendo conto non solo dei minimi e massimi edittali contemplati dall’art. 216, bensì anche considerando le attenuanti e le aggravanti “speciali” previste per tali reati. Il rinvio alla determinazione della pena, cioè, deve ritenersi integrale ed è basato sul presupposto della identità oggettiva delle condotte; ogni diversa interpretazione sarebbe irragionevole in quanto condotte potenzialmente più pericolose sarebbero punite in modo più lieve.
Per costante insegnamento del giudice delle leggi, l’interprete deve prima di tutto verificare se sia possibile operare un’interpretazione costituzionalmente orientata e solo in caso negativo rimettere gli atti alla Consulta. Nel caso di specie non risulta essersi formato un diritto vivente, impeditivo di una diversa interpretazione, mentre sussiste invece la possibilità di operare un’interpretazione, peraltro conforme alla giurisprudenza maggioritaria, che sia rispettosa dei canoni costituzionali. Nè può dirsi ostativa ad una tale interpretazione la recente sentenza delle Sezioni Unite (21039/2011, Loy), la quale affronta il problema incidentalmente in un breve passo della motivazione; non è chiaro, infatti, l’intendimento delle sezioni unite, le quali prima parlano di interpretazione estensiva e poi di applicazione analogica. Pare emergere dal contesto della motivazione (riferita al diverso caso dell’applicabilità dell’art. 219, comma 2, n. l) che l’applicabilità dell’art. 219 alla bancarotta impropria sia diretta (“… il richiamo contenuto nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull’applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione, ricorrendo l’eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatola”); il periodo successivo della motivazione sembra indicare che l’applicabilità del 219 può operare solo in via analogica (“L’applicazione analogica della L. Fall., art. 219, ai reati di bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole all’imputato …”), ma così interpretato implicherebbe una contraddittorietà evidente tra i due passi della sentenza. Quest’ultimo periodo deve dunque essere interpretato come argomento subordinato per giustificare l’applicabilità dell’art. 219, comma 2, n. 1 alla bancarotta impropria, anche qualora tale applicabilità presupponesse un’interpretazione analogica (che viene però esclusa dalla sentenza). Vi è, infine, da prendere in esame un ultimo aspetto, di natura sistematica, che potrebbe indurre l’interprete ad una interpretazione restrittiva; gli artt. da 223 a 226, L. Fall. si occupano dell’estensione delle pene previste per l’imprenditore individuale agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori delle società dichiarate fallite. In tali norme sono richiamati espressamente gli artt. 216, 217, 218 e 220, mentre non è mai richiamato il 219. Da ciò potrebbe desumersi un’esclusione volontaria di quest’ultima norma da parte del legislatore, con conseguente sua inapplicabilità a tutte le ipotesi di bancarotta impropria. In realtà una tale interpretazione si palesa superficiale e non tiene conto di un dato fondamentale, e cioè del fatto che mentre gli artt. 216, 217, 218 e 220 individuano delle specifiche fattispecie di reato, l’art. 219 contempla delle semplici circostanze.

5. Anche il ricorso di L.E. non merita accoglimento; i primi due motivi di ricorso sono inammissibili per manifesta infondatezza e perchè attraverso un riesame frammentario delle prove pretendono di ricostruire i fatti in modo alternativo, certamente più favorevole all’imputato, in costanza di una motivazione adeguata e soprattutto priva di evidenti vizi logici.

6. Il terzo motivo di ricorso è infondato, in diritto, dal momento che l’avviamento, in quanto elemento patrimoniale che ben può essere suscettibile di una valutazione economica, può certamente costituire l’oggetto della distrazione patrimoniale che integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 216 L. Fall..

7. Non si sconosce la massima citata dal ricorrente (Sez. 5, n. 9813 del 08/03/2006, Franceschini, Rv. 234242), ma occorre tener conto che si trattava di un caso particolare in cui non vi era stato contestuale trasferimento di azienda; tanto che la sentenza Franceschini ha affermato che non è possibile configurare la distrazione dell’avviamento commerciale dell’azienda, oggetto dell’impresa successivamente fallita, se contestualmente non sia stata oggetto di disposizione anche l’azienda medesima o quantomeno quei fattori aziendali in grado di generare l’avviamento.

8. Ma quando l’avviamento viene trasferito unitamente all’azienda, esso costituisce un bene economicamente apprezzabile e, come tale, può essere oggetto di bancarotta per distrazione. Nel concetto di beni, agli effetti dell’art. 216, L. Fall., rientrano infatti tutti gli elementi del patrimonio dell’imprenditore, compresi non soltanto i beni suscettibili di utilizzazione immediata, ma anche i beni strumentali e persino quelli futuri (Sez. 5, n. 8598 del 24/05/1982, MARCUCCI, Rv. 155357).

9. Questa stessa sezione ha confermato recentemente entrambi i precedenti orientamenti (che non sono affatto in conflitto), affermando che l’avviamento, in quanto autonoma componente del valore dell’azienda, presenta una indubbia natura patrimoniale ed è suscettibile di quantificazione economica (Sez. 5, n. 3817 del 11/12/2012, Agostini, Rv. 254474).

10. In conclusione, nel caso di passaggio di mano dell’azienda per una contropartita che non remuneri adeguatamente il suo avviamento non v’è ragione – come ritenuto dalla sentenza Agostini – per negare che quest’ultimo possa anche da solo rappresentare l’oggetto materiale della distrazione, atteso che la nozione di “bene” accolta dalla L. Fall., art. 216, si estende a tutti gli elementi del patrimonio dell’impresa, poichè l’oggetto del reato è costituito dal complesso dei rapporti giuridici economicamente valutabili che fanno capo all’imprenditore e che concorrono a costituire la garanzia patrimoniale dei creditori (Sez. 5, n. 67 del 15 gennaio 1985, Ortolani, Rv. 167651). Dunque, una volta stabilito che l’avviamento ha una intrinseca natura patrimoniale ed è suscettibile di valutazione economica, il suo essere una “qualità” dell’azienda non ne pregiudica la vocazione a costituire l’oggetto materiale della bancarotta, quantomeno nei termini descritti (Sez. 5, n. 3817 del 11/12/2012, Agostini, Rv. 254474).

11. Il terzo motivo di ricorso è infondato anche nella parte in cui si contesta il vizio di motivazione, per il vero non adeguatamente illustrato; in ogni caso il valore assegnato all’azienda, comprensivo dell’avviamento, integra una valutazione di merito che, essendo corredata di adeguata motivazione alla pagina sette della sentenza, non è possibile contrastare in questa sede di legittimità.

12. Il quarto motivo di ricorso è generico e valutativo e come tale inammissibile; la asserita contraddizione che la difesa cerca di introdurre attraverso una arguta comparazione di stralci della sentenza, sapientemente estrapolati, non sussiste. E’ lo stesso giudice di appello (vedi pagina sette) a motivare in modo specifico su tale aspetto, evidentemente di fronte ad analoga censura svolta con l’atto di impugnazione (il che rende il presente motivo altresì ripetitivo e dunque privo della necessaria specificità).

13. Infine, il quinto motivo di ricorso è generico ed in ogni caso è palesemente infondato, posto che si limita ad affermare che la cessione d’azienda non può aver rappresentato alcun danno per i creditori, in quanto i contratti ceduti non erano ancora stati eseguiti e dunque erano privi di valore. L’affermazione contrasta con quanto affermato da questa Corte nella motivazione relativa al terzo motivo di ricorso, cui si fa rinvio. La sottovalutazione del valore patrimoniale dato dall’avviamento aziendale ha inequivocabilmente prodotto un danno che è quantomeno pari alla differenza tra il valore reale ed il corrispettivo pattuito.

14. Consegue a quanto esposto che entrambi i ricorsi devono essere rigettati; ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti singolarmente al pagamento delle spese processuali, nonchè in solido al pagamento di quelle sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.300,00, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2013

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