Legge Balduzzi – Il Tribunale di Milano (ri)torna subito sui suoi passi: la responsabilità del medico ospedaliero è contrattuale (Trib. Milano, sez, V civile, 18 novembre 2014 n. 13574)

Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 Legge 189/2012 (cd. Legge Balduzzi), l’obbligazione risarcitoria del nosocomio e medico nei confronti del paziente, ancorché non fondate – talvolta l’una, talvolta l’altra – su una stipulazione negoziale di tipo ordinario, ma su un mero contatto sociale, hanno ugualmente natura contrattuale, atteso che a detto contatto si ricollegano specifici obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi (nella fattispecie quello preso in considerazione dall’art. 32 Cost.) che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso, poichè la volontà del Legislatore oggettivatasi nel dato normativo altro non è che quella di escludere la sola responsabilità penale del sanitario in caso di colpa lieve, tenendo però al contempo aperta la possibilità che – anche in caso di assoluzione penale per levità della colpa – al danneggiato possa spettare un risarcimento civilistico. [AA]

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Trib. Milano, sez, V civile, 18 novembre 2014 n. 13574

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MILANO
Sezione 5^ civile

in composizione monocratica, nella persona del giudice dr Andrea Manlio Borrelli, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa n. 33039/09 R.G. promossa da: M. I. (c.f.), rappresentato e difeso dagli Avv.ti Giorgio Mondini e Alessandro Fano, presso i quali è elettivamente domiciliato in Milano, via Visconti di Modrone 2; -attore -

contro

C.V. (c.f.), rappresentato e difeso dall’Avv. Giuliano Fede Pellone, presso il quale è elettivamente domiciliato in Milano, corso di Porta Romana 79;
Azienda Ospedaliera di “*” (c.f./p.IVA….), in persona del Direttore Generale Dott., e M.P.G.L.F. (c.f.), rappresentati e difesi dall’Avv. Giuliano Fede Pellone, presso il quale sono elettivamente domiciliati in Milano, corso di Porta Romana 79;  -convenuti-
con atto di citazione notificato a C.V. il 24.4.2009, a Osp. il 27.4.2009 e a F. il 28.4.2009;
avente a oggetto: risarcimento danno iatrogeno;
n. 5477/2005 R.G.
conclusioni delle parti: come da fogli allegati al verbale dell’udienza del 6.5.2014, che – noti alle parti – vengono qui integralmente richiamati e formano parte integrante della presente sentenza;

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Signor “M.I.” chiede la condanna dei tre convenuti, in solido fra loro, al pagamento di € 100.000,00 (oltre interessi e rivalutazione) per i danni patrimoniali e non patrimoniali, inclusi quelli biologici, morali ed esistenziali, inizialmente (nell’atto introduttivo del presente giudizio) quantificati nel complessivo importo di € 330.000,00, che assume di aver patito in conseguenza di ritardo diagnostico.
L’attore narra di essersi presentato, il 3.10.2002, alle ore 8:43, al Pronto Soccorso dell’Ospedale di “*”, accusando fortissimi dolori all’occhio sinistro e disturbi visivi. Segnala di aver dichiarato di fare uso di lenti a contatto.
Il medico di turno aveva riscontrato iperemia congiuntivale e chiesto che “I.” venisse sottoposto a visita di specialista oculista. Questi, che in un secondo momento è risultato essere il convenuto Dottor “C.V.”, esaminato l’occhio dell’attore in modo sbrigativo, aveva dimesso il paziente alle ore 9:20 con diagnosi di “infiltrato corneale centrale” e prescritto applicazioni serali di collirio e applicazioni di pomata oftalmica …, nonché nuova visita di controllo dopo quattro giorni.

L’attore tuttavia, poiché continuava “ad accusare dolori lancinanti all’occhio sinistro” e si era accorto di non vedere (anche perché l’occhio era coperto da pus), era tornato al Pronto Soccorso dell’ospedale di “*” nelle prime ore del 4.10.2002.
La Dottoressa M.P.F., medico di turno, preso atto della visita specialistica già effettuata e nonostante il dolore lamentato dal paziente, il rossore diffuso dell’occhio, la pupilla bianca, la suppurazione in atto, aveva, dopo una visita di sei minuti, steso referto di “iperemia congiuntivale. Residui di pomata oft. Probabile infiltrato corneale“, così mostrando di avere scambiato il materiale purulento per residui di pomata, e, alle ore 3:57 aveva dimesso l’attore invitandolo a “seguire i consigli dello specialista oculista“.

Poiché però, nonostante l’assunzione degli antidolorifici prescritti al bisogno, il dolore non era diminuito, M.I., lo stesso 4.10.2002. si era recato – anche questa volta, come le precedenti, accompagnato dal padre – presso l’Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano “, dove il medico di turno, resosi conto della gravità della condizione dell’attore, ne aveva disposto il ricovero d’urgenza, con diagnosi di “ampio ascesso corneale all’occhio sinistro”.

Sostiene l’attore che i due sanitari dell’Ospedale di “*”, convenuti insieme all’Azienda Ospedaliera, avrebbero errato la diagnosi iniziale e la cura, facendo perdere al paziente “quasi 48 ore preziose per l’avvio della corretta terapia“, con la conseguenza che neppure le appropriate cure praticategli presso il Fatebenefratelli avevano potuto impedire il verificarsi di “gravi e permanenti lesioni corneali“.
Affermato che, alla stabilizzazione del quadro clinico, il suo occhio sinistro aveva un visus residuo di soli 3/10 e un leucoma corneale con assottigliamento dello spessore corneale maggiore nella porzione apicale; asserito che l’imperizia, l’imprudenza e la negligenza dei sanitari di Desio aveva comportato l’evolvere della patologia iniziale (infiltrato corneale) in ascesso, causandogli danno biologico valutato (da perito consultato dall’I.) nella misura del 13-14%, invalidità temporanea totale per otto giorni di ricovero presso il Fatebenefratelli, e i.t. parziale successiva, oltre a danno patrimoniale, pari alle spese sostenute per visite specialistiche, farmaci e occhiali, quantificabile in € 1798,00, oltre a menomazione della capacità lavorativa futura (all’epoca l’attore, diciannovenne, era ancora studente) e “danno estetico”, psichico e alla vita di relazione.

I tre convenuti si sono costituiti nel presente giudizio in data 30.10.2009, con il ministero di unico difensore, ma depositando due distinti fascicoli e comparse di risposta.
Contestano la responsabilità per i danni (da inadempimento contrattuale) loro attribuita dall’attore, ma anche la sussistenza dei pregiudizi allegati da “I.”, e chiedono respingersi le domande formulate dall’attore. M.P.F. e l’Azienda Ospedaliera di “*”, segnalano inoltre di avere, nel dicembre 2008, a mero fine transattivo, formulato offerta di pagamento della somma di € 10.000,00.

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Nel corso del presente giudizio è stata disposta ed effettuata CTU affidata all’esperto in medicina legale “X” e all’oftalmologo Dott. “Y”.
Questi hanno inteso premettere alla risposta al quesito loro assegnato che “la cheratite microbica rappresenta un urgenza-emergenza oculistica in quanto possono evolvere verso una perforazione con endoftalmite. La cicatrice corneale è spesso molto invalidante. L’uso delle lenti a contatto rappresenta il più frequente fattore di rischio di un’infezione batterica. L’uso non corretto delle lenti, la scarsa igiene sono spesso alla base della cheratite. La lente a contatto determina meccanicamente una sofferenza dell’epitelio corneale consentendo ai germi di attraversare la barriera epiteliale e penetrare nello stroma corneale. I germi più tipicamente coinvolti sono i Gram+, stafilococchi, e Gram-, lo Pseudomonas aeruginosa. Quest’ultimo rappresenta la causa più frequente di cheratite associata a lenti a contatto con quadri clinici a rapida progressione per la suppurazione marcata e necrosi tessutale“.
Fatta questa premessa i CTU escludono che siano ravvisabili elementi di colpa professionale nella condotta del Dr “V.”, medico oculista che visitò “I.” il 3.10.2002.
In quella occasione, scrivono gli Ausiliari del giudice sulla base della documentazione clinica agli atti, la patologia corneale relativa all’occhio sinistro “era ancora agli esordi: era visibile solo un infiltrato corneale centrale“. Cosicché i consulenti ritengono “essere stata correttamente prescritta una terapia topica con cicloplegico e Pensulvit (Tetraciclina Sulfametiltiazolo) pomata 4 volte al dì“.
Osservano i CTU che, per le caratteristiche farmacologiche della pomata consigliata, e in particolare della Tetraciclina, farmaco antibatterico inibitore della sintesi proteica, efficace contro i batteri Gram-positivi, Gram-negativi anaerobi e microrganismi come rickettsie, clamide, micoplasmi, brucelle, escherichia coli, la prescrizione era corretta in relazione al quadro clinico riscontrato.

Nei propri scritti conclusivi parte attrice contesta la valutazione dei CTU assumendo che il convenuto “V.” avrebbe errato, per negligenza, nell’omettere di far effettuare un’analisi colturale, necessaria al fine di individuare con esattezza l’agente patogeno responsabile dell’infezione. Parimenti avrebbe errato nel prescrivere una pomata generica ad ampio spettro e nel prescrivere visita di controllo a distanza di ben quattro giorni.

Osserva il giudice che la pomata Pensulvit è indicata nel trattamento topico delle infezioni oculari esterne generate da microrganismi sensibili alla Tetraciclina ed al Sulfametiltiazolo. Essa deve la sua efficacia biologica e il suo ampio spettro d’azione alla presenza di due principi attivi dotati di un’intensa attività antibiotica. Più precisamente la Tetraciclina è un principio attivo estratto a partire da ceppi di Streptomyces, dotato di attività batteriostatica o battericida dose-dipendente particolarmente efficace nei confronti dei batteri Gram negativi. Penetrata nell’ambiente cellulare la Tetraciclina è in grado di legare la subunità ribosomiale 30S, inibendo l’allungamento della catena peptidica e compromettendo quindi le capacità biosintetiche del battere, inducendone la morte.

Il Sulfametiltiazolo invece è una molecola dotata di attività antimetaboliche che, in quanto sulfamidico, può competere con l’acido paraminobenzoico nella sintesi dell’acido folico e inibire la sintesi di un mediatore particolarmente importante nell’economia del microrganismo.
Tale attività risulta efficace nei confronti dei batteri Gram positivi, Gram negativi e nei confronti della Chlamydia Trachomatis.

Pensulvit è indicato anche nella profilassi pre e post-operatoria e come coadiuvante terapeutico in corso di tracoma. Questa è una malattia infettiva certamente non meno grave e preoccupante della cheratite diagnosticata all’I., che affligge quasi sempre entrambi gli occhi, causata da Chlamydia trachomatis, batterio gram-negativo che si localizza a livello della congiuntiva determinando un processo infiammatorio a evoluzione cronica e un’infezione molto contagiosa che può condurre alla cecità permanente. La provata efficacia dei due principi attivi di Pensulvit rende infondata la censura mossa dall’attore alla scelta di quel farmaco.

Parimenti infondato appare il rimprovero relativo alla omessa effettuazione di analisi colturale, atteso che la patologia era solo all’esordio quando “I.” venne visitato dal “V.” e non risulta letteratura che la prescriva fin da tale fase.
Inoltre non può tenersi conto del rilievo in ordine alla insufficienza della posologia prescritta dal Dr “V”, giacché esso è stato sollevato dall’attore per la prima volta in comparsa conclusionale: dunque tardivamente.

Appare invece fondato il rilievo relativo all’eccessiva distanza temporale indicata per la successiva visita di controllo.

Considerato infatti che i CTU affermano che il quadro clinico delle cheratiti microbiche associate all’uso di lenti a contatto è a rapida progressione, e perciò esse rappresentano un’urgenza-emergenza oculistica, potendo evolvere in perforazione con endoftalmite; considerato che anche nelle difese di parte convenuta si legge che trattasi di patologia soggetta a “variazioni importanti in un breve lasso di tempo“, ritiene questo giudice che la prescrizione di visita di controllo a distanza di ben quattro giorni abbia costituito comportamento imprudente del sanitario.

Del resto, i medesimi consulenti, comparsi per rendere chiarimenti nell’udienza 22.12.2011, hanno dichiarato che le linee-guida accreditate consiglierebbero – per la corretta gestione di una cheratite batterica – l’attesa di circa 48 ore prima di modificare gli atteggiamenti clinici e terapeutici in caso di inefficacia delle cure inizialmente prescritte, e non già di 96 ore, pari all’attesa indicata dal Dr “V.” nella fattispecie all’esame di questo giudice.
Sotto il profilo soggettivo appare dunque sussistere l’inesatto adempimento della prestazione ascritto al convenuto “V.” (sulla natura contrattuale della responsabilità si dirà infra).
Esso, tuttavia, ad avviso di questo giudice non può dare luogo a risarcimento poiché, sul piano causale, non ha spiegato effetto alcuno.

L’attore “I.”, infatti, dopo essere stato dimesso dallo specialista oculista alle ore 9:20 del 3.10.2002, si presentò nuovamente al Pronto Soccorso dell’Azienda convenuta alle ore 3:51 del giorno successivo: vale a dire meno di diciotto ore dopo la prima visita.
Dunque egli – fortunatamente – non tenne in conto l’indicazione ricevuta e, spinto dall’aggravarsi del proprio male, tempestivamente tornò a rivolgersi alle cure del P.S. dell’Ospedale di “*”.
Per la considerazione che precede (carenza di nesso causale fra la negligenza e il danno) la domanda proposta nei confronti del Dr “V.” deve essere respinta.
Ma l’inesatto adempimento di cui sopra appare a questo giudice giusto motivo (ex art. 92 c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis al presente giudizio) di integrale compensazione delle spese relative al rapporto processuale “I.-V”.

L’attore deve invece essere integralmente risarcito dai convenuti Dottoressa M.P.F. e Azienda Ospedaliera di “*” del danno cagionatogli dall’inesatto – per negligenza, imprudenza o forse anche imperizia – adempimento della sanitaria, del quale l’Azienda Ospedaliera deve rispondere ai sensi dell’art. 1228 c.c.

[Sulla natura contrattuale della responsabilità sanitaria]

Prima di approfondire l’esame delle censure che possono muoversi all’operato della Dott.ssa F., appare necessario prendere posizione in ordine a orientamento recentemente espresso da Giudice di altra Sezione (I Civile) di questo Tribunale (sent. 17.7.2014), così massimato: <<Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare)… Se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c.>>.

La norma in questione, l’art. 3 co. I del D.L. 158/2012 come sostituito dalla legge di conversione n. 189/2012, che, secondo l’interpretazione proposta dal Giudice della Prima Sezione Civile del Tribunale di Milano con la sentenza in data 17.7.2014, impedirebbe ora di qualificare come contrattuale la responsabilità del medico ospedaliero, e, secondo precedente pronunzia del Tribunale di Torino (in data 26.2.2013), avrebbe <<gettato alle ortiche>> la costruzione giurisprudenziale del contatto sociale come fonte di obblighi e responsabilità di natura contrattuale, così recita: <<L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo>> (enfatizzazioni di questo estensore).

Il testo originario dell’art. 3 co. I del decreto-legge Balduzzi (n. 158/2012, elaborato in sede governativa), prima di essere come sopra sostituito dalla legge di conversione (n. 189/2012, elaborata invece in sede parlamentare), era il seguente: <<Fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale>>.

Proprio la differente formulazione delle due norme (quella originaria facente riferimento alla disciplina del contratto d’opera intellettuale e dell’adempimento delle obbligazioni, e quella della legge di conversione facente invece riferimento alla norma che afferma la responsabilità extracontrattuale di chiunque cagioni ad altri, con dolo o con colpa, un danno ingiusto), unitamente alla opinione che <<L’interprete non pare autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla norma cardine della responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è premurato di precisare che, anche qualora l’esercente una professione sanitaria “non risponde penalmente per colpa lieve” (del delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo) essendosi attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, “in tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile”>> hanno indotto il Giudice della Sezione I Civile del Tribunale di Milano (e, prima di lui, oltre al cit. Tribunale di Torino, anche il Tribunale di Varese: sent. 26.11.2012 n. 1406) a porsi in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, consolidatosi nel tempo e ribadito, anche dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto Balduzzi, secondo il quale la responsabilità professionale del medico rientra nel genus della responsabilità contrattuale (Cass. Sez. VI Civ. 17.4.2014 n. 8940; Cass. 19.2.2013 n. 4029).

In particolare, con l’ordinanza 17.4.2014 n. 8940, la Corte di Cassazione aveva affermato che <<L’art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, … non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve>>.

A tale orientamento del Giudice della Nomofilachia la pronuncia di Trib. Milano Sez. I Civ. obietta, in sostanza, che l’interprete deve presumere il Legislatore consapevole e dunque, con riguardo alla norma in esame, ritenere che volutamente abbia richiamato l’art. 2043 c.c., al fine di ricondurre, una volta per tutte, la disciplina della responsabilità del medico ospedaliero nel quadro di quella extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., intenzionalmente soppiantando l’elaborazione giurisprudenziale (di merito e di legittimità) affermatasi nel precedente quindicennio circa la responsabilità da contatto sociale.

La tesi sopra riassunta non è condivisa da questo giudice (della Sezione V Civile del Tribunale di Milano).
L’orientamento interpretativo della Sezione I Civile del Tribunale di Milano si fonda – come rilevato – sul postulato che il Legislatore agisca sempre in modo consapevole e razionale. Conseguentemente, secondo quel Giudice, deve escludersi che l’inciso contenuto nell’art. 3 co. I del D.L. Balduzzi, come sostituito dalla legge di conversione n. 189/2012, possa essere ritenuto frutto di una mera “svista”.
Detto orientamento, tuttavia, non può fare a meno di attribuire al medesimo Legislatore altra, non meno grave, svista: quella consistente nell’aver del tutto dimenticato di distinguere la disciplina applicabile ai casi in cui il paziente si sia rivolto direttamente e personalmente a un medico di sua fiducia, per i quali, come correttamente afferma Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit., il regime della responsabilità per i danni causati nell’esercizio dell’attività professionale medica rimane quello dettato dall’art. 1218 c.c.1 [nota in calce 1. -  <<In tal caso il medico è legato al paziente da un rapporto contrattuale (diverso sia dal rapporto che lega il sanitario alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il paziente e la struttura) e pertanto la sua responsabilità risarcitoria ben può (e deve) essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.>>: così Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit.;], dalla disciplina da applicarsi invece ai casi in cui il paziente si sia rivolto alla struttura sanitaria (ospedale, clinica, ambulatorio) e non al medico, per i quali, in conseguenza dell’entrata in vigore della norma in questione (L. 189/2012 cit.), <<il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.>> (Trib. Milano Sez. I cit.).

L’interpretazione additiva proposta dal Giudice della Prima Sezione del Tribunale di Milano, risultando sostanzialmente manipolativa della norma in esame (che in realtà tace sulle fattispecie di responsabilità contrattuale e non menziona la degenza ospedaliera o altro rapporto con struttura sanitaria quale proprio presupposto di fatto), pare contrastare anch’essa con la presunzione di consapevolezza di cui sopra e si presta, perciò, alla medesima critica che essa rivolge all’interpretazione fatta propria da Cass. n. 8940/2014 cit., che limita la portata della norma in parola alla riaffermazione del principio che, nel giudizio risarcitorio civile, diversamente che in quello penale, et levissima culpa venit.

Introducendo la distinzione di cui sopra (non presente nel dato normativo), l’interpretazione che si tenta qui di confutare finisce col tenere in vita la categoria delle fattispecie originate da contatto sociale (per differenziarne il trattamento) proprio nel momento in cui ne afferma intervenuto il tramonto definitivo.

Alle considerazioni che precedono può aggiungersi che il primo comma dell’art. 3 del D.L. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
L’ossequio alla lettera della nuova disposizione dovrebbe comportare anche adeguata valorizzazione dell’incipit dell’inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi [nota in calce 2. - inciso che, si rammenta, suona così: "In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile";], per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto – appunto – a “tali casi” (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida ecc.).

In senso conforme a quanto appena osservato si è espresso il Tribunale di Brindisi con sentenza in data 18.7.2014. Che aggiunge doversi escludere l’efficacia retroattiva della norma de qua (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale): con conseguente inidoneità dell’art. 3 co. I D.L. 158/2012 come sostituito dalla L. 189/2012 a regolamentare rapporti – quale quello oggetto del presente giudizio – venuti a esistenza nella vigenza del precedente quadro normativo-giurisprudenziale.

D’altra parte, secondo questo il giudice, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo [nota in calce 3. - è qui il caso di segnalare che, secondo copiosa giurisprudenza (di merito e di legittimità), la responsabilità ex contractu dell'esercente la professione sanitaria può concorrere con quella ex delictu di cui all'art. 2043 c.c.;]) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per es. “la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del codice civile“) anziché il breve inciso in commento.

Insomma, pur non essendo qui d’aiuto il noto brocardo ubi lex voluit dixit, poiché il Legislatore, effettivamente, aliquid dixit, non può comunque ritenersi – ad avviso di chi scrive – che la locuzione meramente “eccettuativa” (così Trib. Brindisi cit.) di cui trattasi abbia inequivocabilmente reso manifesta la volontà del Legislatore stesso di negare la configurabilità di responsabilità contrattuale in capo al medico ospedaliero ets.

Inoltre, ritenere che l’esercente la professione sanitaria, ogni qual volta svolga la propria attività all’interno di una struttura, sia tenuto, nei confronti del paziente, a rispettare soltanto il precetto generale dell’art. 2043 c.c. (sintetizzabile nel comando di non nuocere al prossimo: alterum non laedere), valido per la totalità dei soggetti, anche non esercenti la professione sanitaria, e non debba invece rispettare l’obbligo di diligenza professionale posto dall’art. 1176 co. II c.c., appare a questo giudice oltremodo riduttivo della funzione sociale dell’esercente la professione sanitaria.

Infine, se è vero che dall’opzione interpretativa che esclude l’applicabilità della disciplina della responsabilità contrattuale all’attività dell’esercente la professione sanitaria in ambito ospedaliero discendono conseguenze sia in tema di riparto dell’onere di allegazione e prova (che diverrebbe assai più gravoso per il danneggiato), sia in ordine al termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno (che risulterebbe dimezzato), e che tali conseguenze appaiono, al Giudice della Prima Sez., coerenti con l’intento del Legislatore di contenere la spesa pubblica e di arginare il dilagante fenomeno della “medicina difensiva” (che su detta spesa incide), è altresì vero che quell’opzione comporterebbe l’inapplicabilità al sanitario del limite alla responsabilità del prestatore d’opera posto dall’art. 2236 c.c. (in materia contrattuale) [nota in calce 4. - per l'art. 2236 c.c. "se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave";], ciò che – ad avviso di chi scrive – darebbe nuova linfa proprio a quell’atteggiamento “difensivo” che in realtà si vorrebbe debellare.
Dunque, neppure l’argomento della ratio legis appare poter sostenere l’opzione interpretativa che sottrae l’attività del sanitario al regime della responsabilità contrattuale.

Non resta, perciò, che adeguarsi alla già ricordata interpretazione proposta da Cass. 17.4.2014 n. 8940, secondo cui la volontà del Legislatore oggettivatasi nel dato normativo altro non è che quella di escludere la responsabilità penale del sanitario (che abbia seguito le linee guida ecc.) in caso di colpa lieve, tenendo però al contempo aperta la possibilità che – anche in caso di assoluzione penale per levità della colpa – al danneggiato possa spettare un risarcimento civilistico (secondo il brocardo: in lege aquilia et levissima culpa venit).

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Per le considerazioni che precedono questo giudice ritiene di non discostarsi dal proprio precedente orientamento (conforme all’insegnamento della Cassazione e alla giurisprudenza della Sez. V civ. del Tribunale di Milano) e di inquadrare la fattispecie oggetto di causa nell’ambito della disciplina della responsabilità contrattuale.

Si continua cioè a ritenere che sia l’obbligazione del nosocomio nei confronti del paziente, sia quella del medico, ancorché non fondate, talvolta l’una, talvolta l’altra, su una stipulazione negoziale di tipo ordinario, ma su un mero contatto sociale, abbiano comunque natura contrattuale, atteso che a detto contatto si ricollegano specifici obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi (nella fattispecie quello preso in considerazione dall’art. 32 Cost.) che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (Cass. Sez. 3, 19.4.2006 n. 9085).

Con specifico riguardo alla responsabilità dell’ospedale può osservarsi che, secondo Cass. Sez. 3, 14.6.2007 n. 13953, essa può derivare, oltre che dall’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico (ai sensi dell’art. 1218 c.c.), anche, in virtù dell’art. 1228 c.c., dall’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, o dall’infermiere, quali suoi ausiliari necessari, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e la sua organizzazione aziendale. Nello stesso senso si sono espresse anche Cass. Sez. III, 3.2.2012 n.1620 e Cass. Sez. III, 13.4.2007 n. 8826.

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Nel caso in esame, secondo la valutazione dei CTU, sussistono elementi di colpa a carico della Dottoressa M.P. F. dell’Ospedale di “*”, che visitò “I.”: quando questi si presentò per la seconda volta al Pronto Soccorso (meno di diciotto ore dopo la prima visita).
Gli Ausiliari del giudice ravvisano tali elementi nel “non aver consigliato una nuova valutazione oculistica a fronte di una situazione clinica sicuramente aggravata rispetto alla prima valutazione specialistica“, nell’aver ignorato la pericolosità di una cheratite microbica in rapido peggioramento e che essa necessita di urgenti cure, nonché nel non avere neppure interpellato telefonicamente lo specialista oftalmologo di turno.
Ciò ha comportato – secondo i CTU – un ritardo di almeno sedici ore nell’inizio delle cure mirate rese necessarie dal rapido aggravamento del quadro clinico.
Le corrette cure, se diligentemente e tempestivamente prestate, avrebbero determinato una riduzione dell’estensione e della perdita tessutale della cicatrice corneale (relaz. CTU, pag. 5).

I Consulenti stimano il danno iatrogeno patito da “I.2 in conseguenza di tale ritardo in termini di 3-5 punti percentuali dell’integrità psicofisica (danno biologico permanente), ma escludono che l’attore abbia patito invalidità temporanea o inabilità (lavorativa) specifica causate dall’operato della convenuta. Essi inoltre affermano che le spese mediche documentate in atti sarebbero state comunque necessarie, anche in assenza della colpa di cui si è detto, alla quale dunque non sono legate da nesso eziologico.

Tale stima dei CTU è contestata dalla difesa di parte attrice, che valuta invece il danno iatrogeno permanente nella misura del 15-20%; la difesa dell’attore inoltre sostiene che alla Dottoressa “F.” sia da addossarsi anche la responsabilità per invalidità temporanea, per danno estetico, “morale”, “esistenziale” e patrimoniale da diminuite chance di guadagno futuro.

In proposito osserva il giudice che, come chiarito dai CTU nell’udienza 22.12.2011, una cheratite batterica del tipo di quella che colpì “I.”, “anche se trattata correttamente fin dagli esordi, ha sempre esiti invalidanti“: produce opacità, perdita tessutale e danno funzionale (cfr. verb. ud. cit.).
Essendo pacifico che l’insorgenza della patologia non sia in alcun modo imputabile ai convenuti, ma solo l’aggravamento di essa determinato dal ritardo diagnostico, deve osservarsi che l’attore, dopo essere stato visitato, alle ore 3.51 del 4.10.2002, dalla F. (cui era colposamente sfuggita l’evoluzione ingravescente dell’infezione), si presentò ad altra visita, presso la 2^ Divisione di Oculistica dell’Ospedale …. e Oftalmico di Milano lo stesso giorno 4.10.2002, facendo ingresso in “reparto d’urgenza”, dove, il successivo 5.10.2002, gli venne diagnosticato “ampio ascesso corneale con perdita di sostanza centrale” in OS (cartella clinica doc. 3 att.).

Dunque il ritardo nell’inizio delle cure appropriate al caso, imputabile alla “F.”, spiegò effetti solo per alcune ore.
L’esiguità di tale ritardo, come illustrato dai CTU, non priva il medesimo di efficacia causale in relazione alla menomazione dell’integrità psico-fisica residuata a carico dell’ “I.”. Ma certo impedisce che ai convenuti possano essere imputate per intero le conseguenze, temporanee e permanenti, della menomazione riportata dall’attore.
Ritiene perciò questo giudice che, se appare eccessivamente contenuta la stima del danno biologico iatrogeno permanente compiuta dai CTU (3-5%), atteso che anche i convenuti riconoscono, nei loro scritti difensivi, che la patologia in questione è soggetta a “variazioni importanti in un breve lasso temporale“, le conseguenze del ritardo de quo non possono, ad avviso del giudicante, aver avuto, sull’integrità psicofisica dell’attore, già precedentemente colpito dalla cheratite microbica, incidenza superiore al 7%.
Così come non pare potersi stimare l’invalidità temporanea (conseguita al ritardo diagnostico) superiore agli otto (8) giorni di ricovero affrontati dall’ “I.”, nella residua parte essa apparendo costituire conseguenza ordinaria della patologia pregressa dell’attore.

Con riguardo alla liquidazione di tali danni osserva questo giudice che, in presenza dei criteri dettati dalla legge n. 57 del 2001 (poi trasfusi nell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni di cui al d.lgs. 7.9.2005, n. 209) per la quantificazione del ristoro delle cd. microlesioni (tali essendo quelle fino al 9% della integrità psico-fisica della persona) prodotte da incidenti stradali, appare doveroso (nonostante il contrario pronunciamento, in questo processo non giuridicamente vincolante, e neppure astrattamente convincente [nota in calce 5. - attesa l'incomparabilità (ritenuta da questo giudice), per la loro notevolmente diversa rilevanza costituzionale, de "l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato" derivante da lesione al diritto alla salute con "quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi";], contenuto in C.Cost. 6.10.2014 n. 235) che il giudice, nell’esercizio della discrezionalità attribuitagli dall’art. 1226 c.c., si uniformi a essi anche al di fuori delle fattispecie cui la legge citata si riferisce espressamente.

Ritiene il giudicante che l’interprete chiamato a procedere a liquidazione equitativa di danno all’integrità psico-fisica, avendo avuto indicazione dal Legislatore del 2001 circa il valore monetario da attribuire alla menomazione del bene salute (la cui consistenza ontologica non muta a seconda della sua eziologia, né della collocazione cronologica), non possa preferire parametri di propria concezione a quelli legali.

L’esigenza di doveroso ossequio all’indicazione del Legislatore discende, a parere di chi scrive, dall’insussistenza di ragioni che possano giustificare il ricorso a diversi metri di valutazione dei danni alla persona a seconda delle circostanze in cui essi si siano verificati: il bene salute, oggetto di espressa tutela costituzionale, appare infatti meritare il medesimo risarcimento quale che sia l’eziologia che ne abbia determinato la menomazione. E, in assenza di una fondata ragione di diversificazione del trattamento risarcitorio, apparirebbe in contrasto con lo spirito di una delle norme cardine del nostro ordinamento, costituita dall’art. 3 della Costituzione, il ricorso a diversi criteri valutativi per fattispecie tra loro analoghe nella qualità delle conseguenze.

Le considerazioni che precedono appaiono trovare conferma nell’intervento legislativo di cui al D.L. n. 158/2012 convertito con modificazioni nella L. 8.11.2012 n. 189, che, all’art. 3 comma III – non applicabile ratione temporis alla presente fattispecie – stabilisce che, anche in caso di responsabilità sanitaria, il danno biologico deve essere risarcito secondo i criteri di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni.
Secondo dette Tabelle di legge, una menomazione di sette (7) punti percentuali di invalidità permanente arrecata a persona che, al momento della cessazione dell’invalidità temporanea, aveva – come I. [nota in calce 6.- nato il 9.8.1983;] – l’età di 19 anni, deve essere risarcita con la somma di € 10.109,25.
Il risarcimento del danno biologico temporaneo, come sopra ritenuto (otto gg. di i.t.a.), deve essere liquidato – giusta i predetti parametri legali – nell’importo di € 371,44.
Quanto ai pregiudizi “morali” (sofferenze fisiche e turbamento psichico) ed “esistenziali” (alla vita di relazione), deve osservarsi che il loro ristoro è ricompreso nella somma liquidata a titolo di risarcimento del danno biologico (Cass. SU 11.11.2008 nn. 26972-5).

Né risulta dedotta alcuna concreta lesione di (altro [nota in calce 7. - diverso dal già considerato bene salute;]) interesse preso in considerazione da norma costituzionale, ciò che esclude la configurabilità di un ulteriore danno non patrimoniale risarcibile.

Quanto al danno patrimoniale infine, nulla può riconoscersi in favore di “M.I.” a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da diminuite chance di guadagno, atteso che è incontroverso che egli, dopo le vicende per cui è causa, si laureò in economia e attualmente (da vari anni) lavora presso studio di commercialista. Né può disporsi il rimborso di spese (mediche) passate o future, giacché – come affermato dagli Ausiliari del giudice – esse sarebbero state comunque da sostenersi da parte dell’attore in conseguenza della patologia autonomamente contratta dall’attore, e non paiono essere state determinate dal ritardo diagnostico.

Sugli importi come sopra riconosciuti per il risarcimento del danno biologico iatrogeno debbono conteggiarsi in favore dell’attore anche gli interessi compensativi del ritardo con cui egli ottiene il risarcimento del danno.
Tali interessi, in ossequio all’insegnamento di Cass. SU n. 1712/95, volto a evitare ingiustificati arricchimenti, sono da calcolarsi in misura legale sul valore capitale del danno “devalutato” all’epoca del suo verificarsi, e poi via via sul capitale incrementato in misura proporzionale al decremento del potere di acquisto della moneta. In concreto, con l’ausilio di strumento informatico, si è provveduto a rivalutare annualmente l’importo delle menzionate voci di danno a partire dalla data della loro verificazione (ottobre 2002), applicando l’indice ISTAT dell’epoca corrispondente, e, con identiche cadenze, sono stati calcolati, e poi sommati fra loro, gli interessi al tasso legale su tali importi annualmente crescenti.
Il risultato di tale operazione, eseguita mediante strumento informatico, è pari a complessivi € 2.641,25 (€ 2547,52 + 93,73).

“M.P.F.” e l’Azienda Ospedaliera di “*” debbono pertanto essere condannati, in solido fra loro, a pagare all’attore, a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di € 13.121,91, oltre successivi interessi compensativi in misura legale da calcolarsi sull’importo capitale attualizzato di € 10.480,69 dal 28.7.2014 (data del passaggio in decisione della presente controversia) fino al saldo effettivo.
Le spese processuali relative al rapporto fra I. e i convenuti “F.” e Osp. “*2 del presente giudizio seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo, giusta il D.M. 10.3.2014 n. 55, tenendo conto della fascia tariffaria relativa all’importo della condanna, della qualità della difese, della quantità di questioni trattate.
Analogamente gli oneri di CTU, atteso l’esito complessivo del processo, debbono essere definitivamente posti a carico dei predetti convenuti “F.” e Az. Osp. “*”.
La presente sentenza è immediatamente esecutiva per legge (art. 282 c.p.c.).

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda o eccezione assorbita, disattesa o respinta:
assolve “C.V.” dalla domanda di condanna al risarcimento dei danni nei suoi confronti proposta da “M.I.”, a spese compensate;
condanna “M.P.F.” e Azienda Ospedaliera di “*”, in solido fra loro, a pagare a “M.I.” la somma di € 13.121,91, oltre successivi interessi compensativi in misura legale da calcolarsi sull’importo capitale attualizzato di € 10.480,69, dal 28.7.2014 fino al saldo effettivo;
condanna “M.P.F.” e Azienda Ospedaliera di “*”, in solido fra loro, a rifondere a “M.I.” le spese processuali, liquidate in € 4700,00 per compensi (da maggiorarsi di IVA e CPA) e in € 240,00 per esborsi;
pone le spese di CTU, come già liquidate in corso di causa, definitivamente a carico di “M.P.F.” e Azienda Ospedaliera di “*”, in solido fra loro.
Sentenza esecutiva.

Milano, (in decisione il) 28.7.2014.
Il Giudice
Andrea Manlio Borrelli

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