Responsabilità contabile da mobbing – Corte dei Conti, Sez. Giurisdiz. Calabria, 25 giugno 2013 n. 228

Ancorchè giudicata illecita in sede civile, è soggetta ad autonoma valutazione da parte del Giudice Contabile la condotta del pubblico dipendente integrante mobbing nei confronti di altro pubblico dipendente, in quanto causa di lesione suscettibile di risarcimento sulla base dei principi generali di cui all’art. 2043 c.c. ed all’art. 2087 c.c., che pertanto assume rilievo anche in ambito contabile essendovi riconducibile la sussistenza del danno patrimoniale subito dall’Amministrazione che ha dovuto risarcire il dipendente leso (nella specie è stata ravvisata, in particolare, la colpevolezza della dirigente nell’adottare comportamenti lesivi della dignità della dipendente, quanto meno per le modalità in cui si sono attuate le misure organizzative poste in essere che, anche ove ritenute legittime dal punto di vista amministrativo, si sarebbero dovute estrinsecare in atti, provvedimenti o procedimenti adottati nel rispetto dei poteri e dei doveri che connotano la figura del dirigente pubblico e dei principi di legalità, trasparenza, buon andamento e imparzialità nella conduzione degli uffici ex art. 97 Cost.) [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA CALABRIA

composta dai seguenti Magistrati:
Dott. Rossella Scerbo Presidente F.F.
Dott. Anna Bombino Consigliere
Dott. Quirino Lorelli Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 228/2013

nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 18828 del registro di segreteria promosso dalla Procura Regionale della Corte dei Conti nei confronti della dott. M.R. nata a Tarsia il 23.3.1948 e residente a Catanzaro in via Piave n.3 , rappresentata e difesa dall’avv. Alfredo Gualtieri ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Catanzaro alla via Vittorio Veneto, n. 48;

VISTO l’atto introduttivo del giudizio;
VISTI tutti gli atti ed i documenti di causa;
UDITI, nella pubblica udienza del 15 maggio 2013 il relatore consigliere dr.ssa Anna Bombino, il P.M. nella persona della dr. Sabrina D’Alesio , l’avv. Alfredo Gualtieri per la convenuta;
Ritenuto in

FATTO

Con atto di citazione depositato in data 16 maggio 2011 il Procuratore Regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti Calabria ha chiamato in giudizio la dott. M.R., dirigente regionale, per sentirla condannare al pagamento, a favore della Regione Calabria della somma di euro 19.103,91, oltre agli interessi legali e le spese di giudizio.
L’azione della Procura regionale si fonda in particolare sulla sentenza n. 1332/2009 del Tribunale di Catanzaro –G.L.-Giudice del Lavoro, comunicata all’organo requirente con nota prot. 16486 dell’8.10.2010 della Regione Calabria-Dipartimento “Organizzazione e Personale” Settore “Organizzazione Giuridico, Esternalizzazione”, dalla quale si ricavano, secondo l’accusa, elementi certi che depongono per la responsabilità amministrativa della suddetta dirigente.
Dall’istruttoria emergeva che la dipendente G., funzionario responsabile dell’Ufficio 149 “sistema informativo, stato matricolare e ruolo informazione-rilevazione e gestione presenze“ aveva denunciando atti e comportamenti molesti e vessatori perpetrati dalla dirigente M.R., assegnata dal febbraio 2002 al servizio 47, dal quale dipendeva gerarchicamente la dipendente G., chiamando in giudizio la Regione Calabria la quale all’ esito del giudizio civile veniva condannata al risarcimento del danno per un importo complessivo di euro 13.061,25 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, nonché alle spese del giudizio e della CTU.
Dalla vicenda dedotta in giudizio- ad avviso della Procura regionale- è derivato all’Amministrazione regionale un danno consistito nella ingiustificata erogazione di denaro, riconducibile esclusivamente alla condotta posta in essere dalla dirigente M. R..
Assume il Procuratore Regionale, che con ricorso del 24 giugno 2003 presso il Tribunale civile di Catanzaro la dipendente F.G. chiedeva il risarcimento dei danni di natura contrattuale ed extracontrattuale, nei confronti della Regione Calabria, previo accertamento della condotta gravemente lesiva della dignità di lavoratore posta in essere dalla dirigente M. R., esplicitata attraverso una serie continua di atti riconducibili ad una situazione di mobbing dalla quale erano scaturiti danni alla propria integrità psico-fisica oltre che una dequalificazione sul piano professionale.
Nel ricorso, la G. deduceva di essere dipendente della Regione Calabria dall’1.7.1973, inquadrata dal 1991 nella qualifica di funzionario di VIII livello; assegnata dal 2000 con decreto dirigenziale n. 72 all’ufficio 149 con compiti di funzionario responsabile, facente parte del servizio 47 Dipartimento n. 4 dell’Assessorato al Personale, al quale dal febbraio 2002 era stata assegnata la dirigente M. R.. Sino all’arrivo della dirigente M., la ricorrente aveva svolto le funzioni di responsabile dell’ufficio coordinando le unità, emanando direttive ed istruzioni specifiche per il conseguimento degli obiettivi, predisponendo gli atti e i provvedimenti amministrativi, esclusi quelli riservati dalla legge alla competenza del Dirigente. La stessa provvedeva alla cura di tutte le pratiche dell’ufficio che esaminava prima di assegnarle ai dipendenti dell’ufficio per l’istruttoria e successivamente le sottoscriveva quale responsabile del procedimento. Dopo l’assunzione dell’incarico dirigenziale del servizio 47 da parte della dirigente M., la ricorrente evidenziava di aver cominciato a subire, comportamenti vessatori ed ostili da parte della dirigente, consistenti dapprima in immotivate critiche ed ingiusti rimproveri, e successivamente nel progressivo isolamento dalle attività di ufficio, con sottrazione di competenze e finale svuotamento della posizione professionale.
In particolare, la ricorrente evidenziava di essere stata esautorata dai suoi compiti negandole la possibilità di svolgere le attività proprie della qualifica di funzionario di livello VIII rimanendo in periodi di inattività; che la dirigente aveva chiesto il trasferimento ad altro ufficio, per addebiti gravi mai avvenuti; che tale grave situazione era stata infruttuosamente rappresentata dalla dipendente con nota 12596 del 14.5.2002 al Dirigente Generale e al Dirigente del Settore Giuridico; che era stata costretta a richiedere il proprio trasferimento ad altro ufficio con istanze del 19.3.2003 prot. N. 3838 e del 5.3.2003 prot. N. 5180, trasferimento ottenuto soltanto con decreto dirigenziale del 9.5.2003.
Tali episodi, a dire della ricorrente, avevano determinato la compromissione dello stato psico-fisico nonché danni alla vita di relazione, con dequalificazione professionale della stessa, forzatamente costretta ad un carico di lavoro inferiore a quello regolarmente sostenuto e a subire umiliazioni sul posto di lavoro, condizioni che nel tempo si erano aggravate costringendola a lunghi periodi di astensione dall’attività lavorativa.
La dipendente chiedeva al Giudice del Lavoro di Catanzaro – previo accertamento dell’illegittima condotta della dirigente- la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno arrecato alla professionalità, del danno biologico, morale ed esistenziale, conseguenti alle condotte di “mobbing”, nonché al risarcimento danno per la dequalificazione professionale.
All’esito dell’attività istruttoria, nel corso della quale veniva espletata una CTU medico-legale, il Tribunale di Catanzaro, accertava per il periodo 2002 – 2003, una condotta molesta e vessatoria ascrivibile alla dirigente M. diretta a nuocere psicologicamente la G. allo scopo di umiliarla ed emarginarla, per cui condannava la Regione Calabria quale datore di lavoro ex art. 2087 c.c. al risarcimento del danno alla integrità psico-fisica per non avere provato ad adottare le misure necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento di danno quantificato in euro 13.061,25, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dovuto al soddisfo, nonché alle spese del giudizio e CTU.
Dalla vicenda, ha proseguito il requirente, è derivato un danno patrimoniale per l’Amministrazione di euro 19.103,91, costituito dalla somma degli esborsi dalla stessa sostenuti a titolo di risarcimento del danno e per il pagamento delle spese legali.
Secondo la configurazione accusatoria, l’evento dannoso è causalmente riconducibile alla condotta posta in essere dalla Dirigente, come ricostruita dallo stesso giudice civile nella sentenza; secondo la procura regionale deve quindi escludersi nell’odierno giudizio contabile ogni coinvolgimento causale diretto della Regione Calabria nella produzione del danno in qualità di datore di lavoro tenuto in base all’art. 2087 c.c. ai doveri di prevenzione a tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, in applicazione dei quali il giudice civile ha affermato la responsabilità civile diretta dell’Ente pubblico, ritenendo che nel caso di specie debba configurarsi una autonoma ed esclusiva responsabilità dell’autore del comportamento illecito.
In particolare, dalle risultanze del giudizio civile sono emersi numerosi e dettagliati atti tenuti dalla dirigente nei confronti della dipendente volti alla dequalificazione professionale della medesima, così determinando i presupposti della produzione del danno alla professionalità e alla salute, come accertato dal Giudice del Lavoro con la sentenza n. 1332/2009.
Tale condotta – nell’ottica accusatoria – riveste i tratti caratteristici del dolo in quanto la stessa ha volutamente e intenzionalmente agito verso un sistematico demansionamento della dipendente, una ingiustificata e reiterata prospettazione di sanzioni disciplinari, la richiesta di trasferimento di ufficio, le offese, ovvero attraverso una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio contro la G..
Pertanto, ha concluso la Procura attrice, l’operato del dirigente così delineato sembra in contrasto con le disposizioni in materia di mansioni (art. 152 D. Lgs. 165/2001), con il principio di trasparenza nonché con i princìpi di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost..

All’invito a dedurre notificato alla dirigente M. in data 4 aprile 2011, la predetta ha controdedotto con deduzioni difensive depositate in data 19.4.2011, le quali non sono state comunque ritenute idonee ad escludere la responsabilità per il prospettato danno da mobbing per cui la stessa veniva citata nell’odierno giudizio a rispondere del danno erariale arrecato alla Amministrazione regionale di appartenenza.

Con memoria difensiva del 4 ottobre 2012 si è costituita la dott. M.R. a mezzo del suo difensore, eccependo in sintesi che:
-l’autonomia e separatezza del giudizio contabile per danno indiretto rispetto al giudizio civile tra terzi danneggiati e P.A. esclude che il danno quantificato in sede civile abbia efficacia vincolante nel giudizio di responsabilità amministrativa per effetto dell’art. 2909 c.c., dovendo il giudice contabile accertare autonomamente i fatti causativi della deminutio patrimonii e formare il proprio libero convincimento, non potendosi attribuire agli esiti istruttori del processo civile la valenza di prove vere e proprie ma bensì di indizi o argomenti di prova ex art. 116 c.p.c.;
-nel processo civile la convenuta è rimasta estranea pur essendo parte legittimata passiva dell’azione di mobbing e quindi la mancata citazione in veste di litisconsorte necessaria (Trib. Benevento 27.10.2009 n. 3688), avrebbe impedito il passaggio in giudicato della sentenza resa nel giudizio civile con contraddittorio viziato;
-corollario di tale affermazione sarebbe l’improcedibilità dell’azione contabile per mancanza dell’attualità e certezza della lesione patrimoniale per l’ente che discende dal passaggio in giudicato della sentenza civile;
-violazione del principio della difesa nei confronti della convenuta per mancata partecipazione al giudizio civile di risarcimento danni;
-mancata impugnazione da parte della Regione Calabria della sentenza di primo grado;
-mancata prova del dolo o della colpa grave nonché del nesso di causalità tra la condotta della dirigente e il danno arrecato alla dipendente;
-ha prodotto la relazione del Dirigente del settore giuridico del personale prot. N. 30561 del 27.11.2003 dalla quale emerge la professionalità e la diligenza della convenuta, escludendo ogni carattere vessatorio agli episodi denunciati dalla dipendente;
-ha escluso ogni rilevanza della condotta del dirigente sulla integrità psico-fisica della G. stante le patologie di cui essa è affetta, comprovate in atti (relazione CTU), anche in considerazione del breve periodo entro il quale si sono verificate le vicende denunciate dalla dipendente;
-l’operato della dirigente è stato sempre valutato positivamente dall’Amministrazione regionale, che diversamente avrebbe dovuto sanzionare il comportamento della dirigente causativo di danno patrimoniale;
-ha chiesto l’assoluzione della convenuta, e in subordine la riduzione del danno (Corte conti sez. Sicilia n.2028 del 24 marzo 2011).

Alla pubblica udienza del 15 maggio 2013, le parti si sono riportate agli atti scritti insistendo per l’accoglimento delle conclusioni ivi rassegnate.
La causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. La fattispecie sottoposta al vaglio del Collegio concerne una ipotesi di danno patrimoniale indiretto causato alla Regione Calabria dalla condotta asseritamente mobizzante tenuta dalla dirigente M.R. nei confronti della dipendente G.F..
Invero il giudice civile ha condannato la Regione Calabria a risarcire i danni per mobbing subito dalla dipendente G. quantificati in euro 13.061,25, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, a conclusione del processo civile dinanzi al Tribunale di Catanzaro concluso con la sentenza n. 1332/2009, non impugnata, eseguita dall’Ente regionale soccombente con il pagamento della complessiva somma di euro 19.103,91, a titolo di risarcimento danno, interessi e rivalutazione monetaria e spese legali.
Le conclusioni del giudice civile contenute nella sentenza n.1332/2009 costituiscono quindi i presupposti fondanti l’azione introdotta dalla Procura regionale per danno erariale indiretto nei confronti della dirigente M.R. ritenuta unica responsabile della condotta lesiva dell’integrità della dipendente regionale G.F..
Invero, il giudice civile, anche sulla scorta della consulenza medico-legale espletata in quella sede e delle risultanze testimoniali, ha ravvisato una condotta gravemente lesiva della dignità del lavoratore a carico del datore di lavoro ipotizzando la violazione dell’art. 2087 c.c. secondo il quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La disposizione richiamata riconosce il diritto soggettivo del lavoratore a vivere in un ambiente di lavoro non pregiudizievole per la sua salute e per la sua personalità morale, in supplenza della “mancanza nell’ordinamento positivo di una fattispecie legale di “mobbing” , sanzionabile esclusivamente in via risarcitoria.
Ciò posto, occorre valutare se ed in quale misura la fattispecie delineata dal giudice civile debba essere presa in considerazione dal Giudice contabile.

2. La difesa ha disconosciuto qualsiasi efficacia vincolante alla pronuncia di condanna emessa nel giudizio civile tra terzi danneggiati e P.A., in virtù del principio di autonomia tra l’azione civile e quella amministrativa-contabile sul presupposto che la prima riguarda una responsabilità extracontrattuale di natura privatistica, mentre l’azione della Procura contabile si ricollega al rapporto di servizio di natura pubblicistica tra l’amministrazione e il dipendente che direttamente o indirettamente abbia arrecato danno all’erario (Corte conti Sez.II. N.1/2008).
Corollari di tale impostazione è che l’indagine del giudice contabile per accertare i fatti causativi della deminutio patrimonii non si riduce nella adesione alle risultanze del giudicato civile ma si basa sempre su una rilettura della fattispecie al fine di formare il suo libero convincimento (art. 116 c.p.c.), senza acquistare nel giudizio contabile la valenza di prove vere e proprie, contrariamente all’operato della procura regionale che avrebbe aderito acriticamente alle risultanze del giudizio civile, senza procedere ad una autonoma valutazione dei fatti di causa e senza individuare le presunte condotte lesive e le asserzioni commesse dalla dirigente M. all’interno del fenomeno denominato mobbing, cui sarebbe stata sottoposta la dipendente G., considerato altresì che la dirigente è rimasta parte estranea al giudizio civile concluso con la condanna diretta dell’Amministrazione regionale.
Secondo le asserzioni della difesa, non condivise dal Collegio giudicante, andrebbe esclusa qualsiasi rilevanza giuridica al giudicato civile ex art. 2909 c.c. nel giudizio di responsabilità amministrativa in quanto entrambi i giudizi presentano elementi costitutivi soggettivi ed oggettivi differenti (petitum e causa petendi) ed inoltre l’assenza della convenuta nel processo civile impedirebbe il passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell’amministrazione che costituisce il presupposto dell’odierno giudizio contabile.

In relazione a quanto dedotto da parte convenuta, appare evidente che deve essere in primo luogo risolto il problema dei rapporti tra giudizio civile e giudizio contabile e quello, connesso, dell’effetto del giudicato civile sul giudizio contabile.
E’ innegabile l’esistenza di un diverso petitum e di una diversa causa petendi fra l’azione amministrativa e l’azione civile di danno contro la P.A..
E’ pacifico infatti che “in giurisprudenza le sentenza civili di condanna a carico della P.A. non esplicano efficacia vincolate nel giudizio di responsabilità, anche se il giudice contabile può trarre da quel diverso giudizio elementi (prove testimoniali, documentazione, consulenze tecniche, ) utili a formare il proprio libero convincimento ex art. 116 c.p.c., pur quando il convenuto sia rimasto estraneo al processo civile” (Corte conti, Sez. I n.139/89; Sez. II n.100/96; Sez. III n.25/98;Sez II n.101/98; Sez. II n.321/2000; Sez. III n.623/2005; Sez. Sicilia n.2028/11).
Secondo l’ orientamento ormai consolidato il giudice civile condanna l’amministrazione a risarcire il privato qualora ravvisi l’elemento psicologico del dolo e della colpa ai sensi dell’art. 2043 c.c., mentre nell’azione susseguente di rivalsa per danno indiretto, il Giudice contabile dovrà, al fine di addivenire ad una sentenza di condanna dell’Amministrazione pubblica, individuare la colpa grave del dipendente pubblico che ha agito in nome e per conto della medesima, valutandone il comportamento dannoso tenuto nell’esercizio delle funzioni o dei compiti ad esso affidati, e successivamente, ai fini della corretta quantificazione della condanna, ricorrere anche all’applicazione del potere riduttivo.
La vicenda in esame inquadrata come danno indiretto va pertanto regolata secondo i principi e i criteri ormai consolidati nella giurisprudenza contabile, non condividendosi le conclusioni sostenute dalla difesa circa l’improponibilità dell’azione contabile per tutte le ragioni sostenute da controparte nella articolata memoria difensiva.

3. Ciò premesso, il Collegio deve evidenziare da una lato la particolare natura del danno perseguito dal giudice civile che ha dato vita alla ipotesi di danno indiretto di che trattasi e, dall’altra, la condotta tenuta dalla dirigente M. nella vicenda conclusa con la condanna dell’Amministrazione regionale al risarcimento dei danni in favore della dipendente G., al fine di verificare se indipendentemente dalle valutazioni del Giudice civile, un danno da mobbing si sia verificato.
Sotto il primo aspetto, come ampiamente evidenziato dalla Procura regionale, il danno da mobbing, coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz, per descrivere un comportamento di alcune specie di animali uniti per assalire un proprio simile per allontanarlo dal gruppo, nell’ambiente di lavoro identifica, a partire dalla fine degli anni 80, una condizione psicologica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una posizione di appoggio e difesa.
Integra quindi la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici e meramente materiali ed eventualmente anche leciti) diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente di cui viene lesa la sfera professionale o personale; né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro- su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c.c-ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero ( e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure di vigilanza (Cass. 9.9.2008 n. 22858).
Da tale situazione, reiterata anche per breve tempo, derivano conseguenze dannose per la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, tutelato dall’art. 1 e 2 Costituzione e il danno che ne deriva è di per sé suscettibile di risarcimento (Cass. Lavoro n.15868/2002; n.1974/2008; n.6572/2006; Consiglio di Stato n.1739/2008, richiamata in Corte conti Sez. Lombardia n. 323/2009), e ciò sulla base dei principi generali di cui all’art. 2043 c.c. e di quelli indicati dall’art. 2087 c.c., in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del mobbing e della sua riconduzione (anche secondo la sentenza della Corte cost. n. 239 del 2003) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto ai sensi dell’art. 2087 c.c. alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore (Cass. 23.3.2005 n.6326).
In definitiva il termine mobbing indica un condotta ingiusta tenuta nei confronti di un lavoratore da parte dei colleghi e/o superiori finalizzata al depotenziamento e alla demotivazione del singolo, alla emarginazione del soggetto sul posto di lavoro, lo svuotamento delle mansioni, l’isolamento per costringerlo al trasferimento o alle dimissioni, tutti episodi che debbono essere complessivamente valutati per accertare l’ingiustizia del danno che producono nel tempo in correlazione agli atti o ai procedimenti posti in essere causativi di danno.
Sotto il secondo aspetto non v’è dubbio che il Giudice civile, anche con l’ausilio della consulenza medico-legale ha accertato nei confronti della dipendente G. che l’amministrazione regionale ha tenuto un comportamento mobbizzante tale da giustificare la condanna al risarcimento danni nei confronti della vittima.
Per come riportato nella parte narrativa, il Giudice civile ha osservato che “nella concreta fattispecie, è emerso che, a partire dal febbraio 2002 e fino a maggio 2003 (quando la dipendente, su propria richiesta, veniva trasferita ad altro ufficio) il Dirigente del servizio 47 del Dipartimento n. 4 della Regione Calabria, dott.ssa R.M. -Dirigente in posizione di supremazia gerarchica rispetto all’odierna ricorrente, che fin dal febbraio 2000 era preposta, quale funzionario responsabile ad un ufficio (149) ricompreso nel citato Servizio- ha assunto iniziative e posto comportamenti che, anche singolarmente considerati, appaiono oggettivamente molesti e vessatori, e che, per frequenza, durata e tipologia, rivelano l’intento persecutorio della Dirigente nei confronti di F.G., funzionario di VIII qualifica funzionale”.
Nello specifico, il giudice ha individuato una serie di episodi, individualmente richiamati nell’atto di citazione della procura contabile (pag. 4,5,6), provati a mezzo di dichiarazioni testimoniali rese dai colleghi della G., sino alla richiesta di trasferimento ad altro ufficio (nota del 18.12.2002 all. n. 21), adducendo gravi violazioni contrattuali e finanche condotte penalmente rilevanti senza però indicare specifiche circostanze di fatto e neppure concreti elementi di prova, al punto che la richiesta non ha trovato accoglimento ( testimonianza della dott. E.M. – Dirigente del Settore Giuridico la quale ha dichiarato quanto segue….Non mi risulta che la G. si sia mai rifiutata di seguire le direttive della dott.ssa M.…”; in particolare, in ordine alla richiesta di trasferimento d’ufficio a firma della dott.ssa M. e promossa nei confronti della G. il 18.10.2002…invitai la M. a desistere non ricorrendo i presupposti per il trasferimento…”), tutti episodi dai quali ha tratto il convincimento del carattere persecutorio nonché l’intento vessatorio che ha mosso il dirigente nei confronti della dipendente, di talchè ha ritenuto “ che la dott.ssa M. abbia agito con l’intenzione di nuocere psicologicamente alla G. allo scopo di umiliarla ed emarginarla”.
Tale convinzione ha trovato altresì fondato supporto nella documentazione sanitaria e nella CTU medico-legale espletata in quel giudizio dalle quali è emerso che la dipendente G. “presenta attualmente un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti di modesta entità e che sussiste nella fattispecie un nesso di dipendenza causale univoco e diretto dell’insorgenza del disturbo patologico con la vicenda di mobbing che ha avuto idoneità lesiva”.
Il Consulente d’ufficio ha concluso affermando che “il quadro clinico della G. sia tale da configurare il carattere di permanenza per la menomazione riscontrata” e che “ la valutazione del danno biologico in termini di menomazione della pregressa integrati psicofisica, compresa una alterazione della qualità della vita”; ha respinto invece la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, per asserita dequalificazione professionale, poiché la ricorrente non ha offerto la prova di avere sopportato, sotto tale aspetto, un effettivo e concreto pregiudizio.
Delle conseguenze dannose pregiudizievoli dell’integrità psico-fisica della dipendente, ha poi ritenuto esclusivo responsabile la Regione Calabria non avendo essa provato di avere adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, individuando il fondamento diretto di tale responsabilità nell’art. 2087 c.c..
Secondo le risultanze probatorie acquisite nel giudizio civile “Risulta evidente il carattere persecutorio delle condotte ascrivibili alla dott.ssa M., nonché il chiaro intento vessatorio che ha mosso la Dirigente nei confronti dell’odierna ricorrente, tanto desumendosi sia dalla natura e dalle modalità di ogni singola condotta, sia dal numero, dalla frequenza e dalla concreta tipologia delle stesse, specie se rapportate all’arco temporale (circa quindici mesi) in cui i fatti descritti si sono succeduti”; da ciò è derivato l’assunto secondo cui dalla condotta della dirigente è derivato un pregiudizio all’equilibrio psicofisico della ricorrente, come comprovato dalla documentazione sanitaria e dalla consulenza medico-legale espletata nel giudizio civile.
Detta affermazione non è stata contestata a livello processuale dalla Regione Calabria, pur costituitasi nel giudizio civile, con memoria nella quale ha argomentato circostanze dirette e contrarie rispetto a quanto sostenuto dalla ricorrente, ma non suffragate da alcun elemento di prova contraria e diretta (testimoniale o documentale). Difatti la difesa della Amministrazione si è limitata a intervenire “blandamente” rifiutando il trasferimento della dipendente richiesto dalla dirigente, attribuendo agli episodi, pur denunciati dalla ricorrente sin dal 2002, il valore di episodi frequenti nell’ambiente di lavoro dovuti a divergenze caratteriali, rimanendo sostanzialmente inerte e passiva di fronte alla situazione palesata da entrambe le parti.

4. I comportamenti adottati dal Dirigente risultano, secondo il Collegio, tutti finalizzati a relegare la dipendente ad un ruolo marginale.
Comportamenti che assumono rilievo anche in ambito contabile ed a questi è riconducibile la sussistenza del danno patrimoniale subito dall’Amministrazione che ha dovuto risarcire l’impiegata.
Il Collegio ritiene pertanto che nella fattispecie in esame sussistono le condizioni per affermare la responsabilità in conformità ai profili di imputazione svolti dalla Procura regionale.
Ad avviso del Collegio, è ravvisabile nel caso di specie, sia la consapevolezza della dirigente nell’adottare comportamenti lesivi della dignità della dipendente, quanto meno, per le modalità in cui si sono attuate le misure organizzative poste in essere dalla medesima nell’espletamento dell’incarico che, anche ove ritenute legittime dal punto di vista amministrativo, si sarebbero dovuto estrinsecare in atti, provvedimenti o procedimenti adottati nel rispetto dei poteri e dei doveri che connotano la figura del dirigente pubblico e dei principi di legalità, trasparenza, buon andamento e imparzialità nella conduzione degli uffici (art. 97 Cost), ma anche l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta tenuta e il pregiudizio arrecato alla dipendente, sul piano della integrità psicofisica della salute che come dignità di lavoratore, come è emerso dalla ampia istruttoria espletata nel giudizio civile, le cui risultanze non sono state superate dalla convenuta nell’odierno giudizio.
Invero, la circostanza invocata dalla difesa della dirigente, secondo cui la dipendente risulta affetta dal 1976 da particolari patologie, comprovate dalla documentazione in atti, non appare dirimente della responsabilità della medesima dirigente nella vicenda in esame, tanto più che la conoscenza di tale pregressa o latente situazione di disagio psicologico avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione ad intervenire prontamente al fine di prevenire l’insorgenza di situazioni potenzialmente conflittuali tra le parti in causa e, alla stessa dirigente, di operare correttamente (D. lgs. 165/2001).
La convenuta ha pure eccepito che la difesa della Regione Calabria è stata carente e che la sentenza non è stata appellata.
Il Collegio osserva che la dirigente si è costituita nell’odierno giudizio con la possibilità di rappresentare le proprie ragioni, mentre la decisione di non proporre appello risponde ad una valutazione di merito e come tale discrezionale, che non influisce sull’esito del giudizio contabile.

5. Il comportamento sostanzialmente acquiescente tenuto dall’Amministrazione regionale rispetto alla situazione palesata fin dall’inizio dell’assunzione dell’incarico da parte della dirigente, può acquisire rilevanza sotto la quantificazione del danno risarcibile.
Contrariamente a quanto sostenuto da parte requirente secondo la quale la Regione Calabria avrebbe respinto la richiesta di trasferimento della dipendente avanzata dalla dirigente in data 18.10.2002, opponendosi anche all’avvio del procedimento disciplinare richiesto dalla medesima (con esclusione di un eventuale concorso in comportamenti vessatori in danno alla dipendente) e che la stessa Amministrazione sarebbe intervenuta per far desistere la dirigente, tali circostanze, ad avviso del Collegio, non appaiono giustificative del comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale avrebbe dovuto intervenire tempestivamente a seguito della situazione insorta con la dirigente e denunciata dalla G. nella nota prot. 1296 del 24.5.2002, senza che venissero adottati provvedimenti conseguenti, consentendo il protrarsi di una situazione lavorativa di disagio per la dipendente, il cui epilogo è stato infatti il trasferimento, sollecitato dalla stessa dipendente con ulteriore richiesta del 5.3.2003, disposto dalla Direzione generale, con decreto n. 6119 del 9.5.2003. Lo stesso giudice civile ha riconosciuto che il datore di lavoro non ha provato di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, non potendosi quindi escludere la responsabilità della stessa per avere invitato la Dirigente a desistere dalle proprie condotte, senza avere adottato “concrete misure” e “vigilato” (Cass. Civ. 9.9.2008 n. 22858).
Dette circostanze-comprovate in atti- se non sono idonee ad elidere la colpa grave della convenuta nella produzione del fatto di cui è causa, tuttavia sono sufficienti a giustificare una congrua riduzione nella misura di un terzo del danno richiesto dalla procura in euro 19. 103,91 .
Pertanto il Collegio ritiene di ridurre l’importo richiesto dalla procura e di porre a carico della convenuta un importo pari a euro 12.735,94.

P.Q.M.

La Corte dei Conti- Sezione Giurisdizionale per la Regione Calabria, definitivamente pronunciando

CONDANNA

M.R. al pagamento della somma di euro 12.735,94 in favore della Regione Calabria, comprensiva di rivalutazione, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza e sino al soddisfo.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in euro * 497,04* *Quattrocentonovantasette/04*.

Così deciso in Catanzaro, nelle camere di consiglio del 15 e del 30 maggio 2013.

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