Nel giudizio di riparazione dell’ingiusta detenzione, che presenta connotazioni di natura civilistica, il vaglio delle circostanze di fatto idonee ad integrare il dolo o la colpa grave deve essere operato, anche sulla base degli atti delle indagini preliminari, con giudizio ex ante e sulla base dell’idoneità della condotta dell’indagato a porsi come presupposto della privazione della libertà [Cassazione Penale, Sez. IV, 20 marzo 2015 n. 11841]

Il giudizio di riparazione dell’ingiusta detenzione presenta connotazioni di natura civilistica e quindi, nel suo ambito, non operano automaticamente i divieti previsti per la fase penale dibattimentale, ivi compreso il divieto di utilizzo degli atti delle indagini, i quali possono invece trovare ingresso in quanto fonti di prova inquadrabili nella categoria delineata dall’art. 2712 c.c..
Ciò posto, il vaglio delle circostanze di fatto idonee ad integrare il dolo o la colpa grave deve essere operato con giudizio ex ante e sulla base dell’idoneità della condotta dell’indagato a “tranne in inganno” l’autorità giudiziaria e a porsi come situazione sinergica alla causazione dell’evento “detenzione”, essenziale essendo la verifica che gli elementi di prova acquisiti nelle indagini e da utilizzare nel procedimento riparatorio non siano inequivocabilmente smentiti (dunque non semplicemente non confermati) da acquisizioni del dibattimento: solo in tal caso, infatti, la verità acclarata nel pieno contraddittorio tra le parti deve avere la prevalenza sulle acquisizioni probatorie captate nella fase inquisitoria (la Corte precisa che nel giudizio in esame è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione, il quale, pur dovendo eventualmente operare sul medesimo materiale, deve seguire un percorso logico – motivazionale del tutto autonomo, essendo suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste condotte si siano poste come fattore condizionante alla produzione dell’evento “detenzione”). [AA]

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe – Presidente -
Dott. MARINELLI Felicetta – Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere -
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere -
Dott. SERRAO Eugenia – rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da: M.R. N. IL (OMISSIS);

nei confronti di: MINISTERO ECONOMIA E FINANZE;

avverso l’ ordinanza n. 52/2013 CORTE APPELLO di ROMA, del 28/11/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SERRAO EUGENIA;
lette le conclusioni del PG Dott. DELEHAYE Enrico, che nella requisitoria scritta ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Roma ha rigettato, con ordinanza del 28/11/2013 , la domanda di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da M.R. in relazione alla privazione della libertà personale subita dal 23 febbraio 2010 al 19 luglio 2010 in un procedimento in cui era indagato per il delitto di cui all’art. 648 bis c.p..

2. La Corte territoriale, premesso un quadro del complesso sistema ricostruito dagli inquirenti nel quale era inserita la società Antiche Officine Campidoglio, della quale M.R. era amministratore, società che era strumentalmente utilizzata per la fittizia intestazione di imbarcazioni e autovetture di lusso acquistate con denaro proveniente dai conti esteri di tali D. G., T. e M., ha richiamato il contenuto di alcune conversazioni captate nel corso delle indagini, ritenendo che tali conversazioni avvalorassero l’ipotesi che M.R. svolgesse il ruolo di prestanome, ed ha ritenuto che il comportamento palesemente connivente di quest’ultimo concretasse una condotta gravemente colposa, ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione. E che l’istante fosse consapevole degli atti compiuti la Corte lo ha desunto dal fatto che, in occasione di una fideiussione rilasciata ad una società di leasing, il M. avesse chiesto e ottenuto un’altra forma di garanzia in suo favore dal D.G., oltre che dal fatto che la sua capacità di leggere gli atti societari e di disposizione patrimoniale sottoposti alla sua firma gli consentiva di rendersi conto del suo ruolo di prestanome.

3. M.R. ricorre per cassazione censurando l’ordinanza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 314 c.p.p., commi 1 e 2.

3.1. Con una prima censura il ricorrente lamenta che nell’ordinanza impugnata non si sia tenuto conto del fatto che la sentenza assolutoria avesse affermato come provato che il M. non avesse mai avuto contezza di alcunchè di delittuoso posto in essere con lo schermo della società ed avesse palesemente escluso la condotta connivente del ricorrente, negando la consapevolezza delle condotte illecite altrui.
Nella sentenza assolutoria, si assume, è affermato che il M. fosse stato tenuto all’oscuro della provenienza delle somme investite, con la precisa volontà di non fargli avere alcuna consapevolezza di ciò che accadeva nella società di cui era il formale amministratore.
L’ordinanza impugnata avrebbe affermato la connivenza del ricorrente nonostante ciò sia stato palesemente escluso dal giudice di merito, come si desume dalle affermazioni contenute alle pagg. 786 ss. della sentenza. Nella mole di atti di cui consta il procedimento, si assume, il M. era menzionato in un’unica telefonata risalente al 2007, dalla quale si desumeva che gli amministratori di fatto della società intendevano non fargli comprendere se non lo stretto necessario, quindi evitando che egli diventasse connivente, essendo stato tenuto all’oscuro della provenienza delle somme investite, essendo la documentazione contabile custodita presso lo studio dei danti causa e difettando, in definitiva, la prova positiva che fosse a conoscenza dell’attività criminosa.

3.2. Con la seconda censura, il ricorrente evidenzia come il processo si sia svolto allo stato degli atti con rito abbreviato sulla base delle stesse emergenze istruttorie erroneamente valutate come gravi indizi a suo carico dal giudice della cautela, che aveva attribuito al M. l’acquisto di tutte le autovetture e barche intestate alla società Antiche Officine Campidoglio nonostante, secondo quanto emerge dalla sentenza assolutoria, alcuni di tali acquisti fossero stati effettuati prima della sua nomina. Il ricorrente assume, dunque, che nell’ordinanza impugnata si sia desunta la colpa grave dall’attribuzione a suo carico di condotte a lui estranee, la cui esclusione si sarebbe riverberata sulla gravita indiziaria con un errore genetico della misura cautelare mutuato dal provvedimento impugnato.

3.3. Con la terza censura il ricorrente lamenta che il giudice della riparazione abbia posto a fondamento della decisione condotte escluse dal giudice della cognizione sulla base della documentazione sequestrata presso lo studio legale – commerciale dante causa del M., immediatamente sottoposta alla valutazione dell’autorità giudiziaria già nella fase delle indagini.

3.4. Con la quarta censura il ricorrente deduce di aver illustrato immediatamente nell’interrogatorio di garanzia i fatti con dovizia di particolari. L’aver fornito una versione dei fatti veritiera, successivamente posta a base della sentenza assolutoria, è elemento fondamentale al fine di valutare l’esistenza della presunta colpa grave e, al contempo, il diritto alla riparazione. Quanto meno dal momento dell’interrogatorio di garanzia, si assume, i gravi indizi avrebbero dovuto ritenersi venuti meno in quanto il ricorrente aveva fornito una serie di dati agevolmente riscontrabili, poi pienamente recepiti dal giudice della cognizione penale.

4. Il Procuratore Generale, in persona del Dott. Delehaye Enrico, nella sua requisitoria scritta ha concluso per il rigetto del ricorso.

5. Con memoria difensiva depositata il 16 febbraio 2015, i difensori del ricorrente hanno ulteriormente sviluppato le argomentazioni svolte nel ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. Le censure mosse nel ricorso non trovano corrispondenza nel testo dell’ordinanza impugnata, che ha svolto puntuali argomentazioni sulla base del compendio istruttorio che si presentava al giudice della cautela e che ha trovato parziale conferma, o non ha comunque trovato significativa smentita nella sua consistenza fattuale, nella sentenza assolutoria.

2.1. Qui è sufficiente rilevare che, la Corte territoriale ha attribuito rilevanza ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione a condotte riferibili direttamente all’istante, che risulta aver assunto la qualifica di amministratore unico della società Antiche Officine Campidoglio, strumentalmente utilizzata per la fittizia intestazione di imbarcazioni e autovetture di lusso acquistate con denaro proveniente da attività di riciclaggio, dopo aver partecipato in qualità di procuratore speciale della AMON CAPITAL, con sede in (OMISSIS), all’acquisto delle quote sociali della società Antiche Officine Campidoglio.

2.2. I due punti della sentenza assolutoria riportati a sostegno del primo motivo di ricorso sono i seguenti: le condotte attribuibili al M. costituivano “decisioni ed iniziative di altri soggetti, circostanze che verosimilmente hanno contribuito a tenerlo all’oscuro della reale portata degli atti in questione”, nonchè “tenerlo all’oscuro degli arrivi delle somme ed escluderlo dalle decisioni relative alla gestione bancaria del denaro… Il movimento del denaro è cosa estranea al M.”. Si tratta di affermazioni che non escludono categoricamente la consapevolezza delle attività illecite svolte dai sodali che, di fatto, amministravano la società della quale il M. risultava amministratore, mentre tutte le altre deduzioni contenute nelle censure qui in esame rappresentano altrettante prospettazioni di una lettura del contenuto della sentenza assolutoria in senso favorevole al ricorrente, inidonee a scardinare l’impianto razionale dell’ordinanza impugnata, che ha fatto riferimento a fatti concreti non esclusi dal giudice della cognizione penale per desumerne la condotta connivente del richiedente.

2.3. Si allude, in particolare, ai fatti descritti alle pagg. 4 – 10 dell’ordinanza ed alle conclusioni alle quali è pervenuto, secondo quanto riporta la stessa ordinanza, il giudice della cognizione penale.
Ritenendo verosimili le argomentazioni difensive svolte nel corso del procedimento a sostegno del fatto che egli non fosse consapevole dell’illiceità dell’attività alla quale si era prestato, il giudice della cognizione penale ha ritenuto che non sussistessero elementi tali da far presumere univocamente che il M. conoscesse la provenienza illecita del denaro e fosse consapevole di porre in essere acquisti finalizzati ad attività di riciclaggio.
Il giudice del merito penale ha dunque ritenuto che non sussistesse ragionevole certezza in ordine all’elemento soggettivo del delitto in esame e, dunque, non ha escluso il comportamento connivente quale è stato, invece, desunto con congrua argomentazione dal giudice della riparazione.

2.4. La Corte territoriale si è fatta carico di indicare da quali elementi avesse desunto che il ricorrente fosse consapevole degli atti compiuti (pag. 11) attribuendo rilevanza, in particolare, al fatto che il M. si sarebbe reso conto del ruolo di prestanome assegnatogli per consentire a S. e D.G. di non operare in prima persona, schermando mediante il ricorso ad un prestanome la titolarità della società e la disponibilità effettiva dei conti correnti.
Si tratta, a ben vedere, di circostanze di fatto non escluse dalla sentenza assolutoria, dunque validamente poste nell’ordinanza impugnata a sostegno della decisione.

3. Come è noto, il rapporto tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione è connotato da totale autonomia ed impegna piani di indagine diversi, che possono portare a conclusioni del tutto differenti (assoluzione nel processo, ma rigetto della richiesta riparatoria) sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti.

3.1. In particolare, è consentita al giudice della riparazione la rivalutazione dei fatti, non nella loro valenza indiziaria o probante (smentita dall’assoluzione), ma in quanto idonei a determinare, in ragione di una macroscopica negligenza od imprudenza dell’imputato, l’adozione della misura, traendo in inganno il giudice. In tal senso deve valutarsi la motivazione dell’ordinanza impugnata, che il ricorrente tende a censurare ripercorrendo le valutazioni che avrebbero dovuto essere proprie del giudice della cautela alla luce dell’esito assolutorio, inconferenti nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione.

3.2. Inoltre, quanto alla utilizzabilità del materiale probatorio, va osservato che la procedura riparatoria presenta connotazioni di natura civilistica, e, quindi, nel suo ambito non possono operare automaticamente i divieti previsti dal codice di rito esclusivamente per la fase processuale penale dibattimentale, e tra di essi, il divieto di utilizzo degli atti delle indagini, che possono invece trovare ingresso nell’alveo di una causa con impronta civilistica, quali fonti di prova inquadrabili nella categoria delineata dall’art. 2712 c.c. , (Sez. 4^, n. 11428 del 21/02/2012, Nocerino, Rv. 252735; Sez. 4^, n. 38181 del 23/04/2009, Ferrigno, Rv. 245308; Sez. 4^, n. 37026 del 03/06/2008, Bologna, Rv. 241981).
Essenziale, in proposito, è la verifica che gli elementi di prova acquisiti nelle indagini e da utilizzare nel procedimento riparatorio, non siano smentiti (non semplicemente non confermati) inequivocabilmente da acquisizioni del processo dibattimentale. Solo in tal caso, infatti, la verità acclarata nel pieno contraddittorio tra le parti deve avere la prevalenza sulle acquisizioni probatorie captate nella fase inquisitoria.

4. Con specifico riferimento all’ipotesi della connivenza, in relazione al diritto all’equa riparazione, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di affrontare la problematica della valenza della connivenza stessa quale condotta ostativa al riconoscimento della riparazione.
In particolare si è riconosciuta tale valenza in tre casi: a) nell’ipotesi in cui l’atteggiamento di connivenza sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose (Sez. 4^, n. 8993 del 15/01/2003, Lushay, Rv. 223688); b) nel caso in cui la connivenza si concreti non già in un mero comportamento passivo dell’agente con riguardo alla consumazione di un reato, ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempre che l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia (Sez. 4^, n. 16369 del 18/03/2003, Cardillo, Rv. 224773); c) nell’ipotesi in cui la connivenza passiva risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire questo effetto (Sez. 4^, n. 42039 del 08/11/2006, Cambareri, Rv. 235397; Sez. 4^, n. 2659 del 03/12/2008, Vottari, Rv. 242538); in tal caso è necessaria la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente medesimo (Sez. 4^, n. 42039 del 08/11/2006, Cambareri, Rv. 235397).

E’ noto che la mera presenza passiva non integra il concorso nel reato, a meno che non valga a rafforzare il proposito dell’agente di commettere il reato. Ma questo rafforzamento del proposito non è sufficiente per ritenere il concorso dello “spettatore passivo”, essendo necessario che questi abbia la coscienza e volontà di rafforzare il proposito criminoso.
Nei casi in cui l’elemento soggettivo in questione non sia provato ben può essere astrattamente configurata gravemente colposa, perchè caratterizzata da grave negligenza, la condotta passiva del connivente per non aver valutato gli effetti della sua condotta sul comportamento dell’agente, la cui volontà criminosa può essere oggettivamente rafforzata anche se il connivente non intenda perseguire questo effetto; tale condotta può ritenersi, infatti, idonea a creare un’apparenza di partecipazione alle attività criminose di altri. Ma per poter pervenire a questa conclusione è necessario che sia provata la conoscenza delle attività criminose compiute (o almeno che con grave negligenza il connivente non se ne sia reso conto).

4.1. Nella concreta fattispecie, avuto riguardo alle circostanze fattuali evidenziate, correttamente la Corte d’Appello ha inquadrato il comportamento di M.R. – tra le ipotesi sopra ricordate alle quali la giurisprudenza della Corte di legittimità ha ritenuto riconducibile la condotta connivente ostativa al riconoscimento della riparazione- quantomeno nell’ipotesi sub c).

4.2. Ad integrazione ed ulteriore specificazione delle ipotesi appena elencate, il Collegio ritiene che debba essere sottolineato, comunque, che, in tema di equa riparazione, il vaglio delle circostanze di fatto idonee ad integrare il dolo o la colpa grave deve essere operato con giudizio ex ante e sulla base dell’idoneità della condotta dell’indagato a “tranne in inganno” l’autorità giudiziaria e a porsi come situazione sinergica alla causazione dell’evento “detenzione”; se è vero dunque che la connivenza non è, certamente, concorso nel reato, è altresì innegabile che la stessa, in presenza di determinati dati di fatto, come quelli sottolineati dalla Corte di Appello nel caso in esame, possa essere interpretata, almeno nella fase investigativa, appunto come concorso, con possibili, negative conseguenze in tema di libertà: conseguenze dovute, perlomeno, anche alla vistosa trascuratezza e superficialità di chi, pur solo connivente, non tiene nel dovuto conto dati di fatto che potrebbero oggettivamente coinvolgerlo.

4.3. Le censure mosse dal ricorrente risultano, dunque, infondate, in quanto la Corte territoriale si è attenuta ai principi di cui sopra, avendo posto a base della pronuncia di rigetto della riparazione la condotta del ricorrente, indicata come fatto storico accertato nel giudizio penale.
Mette conto sottolineare che le doglianze mosse con riferimento al valore da attribuire al ruolo di prestanome assunto dal M. tendono a porre in discussione la valutazione operata dal giudice della riparazione degli atti istruttori acquisiti nel procedimento penale in quanto i medesimi atti sarebbero stati giudicati insufficienti a fondare un giudizio di colpevolezza.
La censura sembra ignorare il costante indirizzo giurisprudenziale, affermato dalla Corte di Cassazione anche a Sezioni Unite (Sez. U n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv.203638), per cui, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione, il quale, pur dovendo eventualmente operare sul medesimo materiale, deve seguire un percorso logico – motivazionale del tutto autonomo, essendo suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste condotte si siano poste come fattore condizionante alla produzione dell’evento “detenzione”; in relazione a tale aspetto della decisione, il giudice ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione, sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione (Sez. 4^, n. 27397 del 10/06/2010, Rv. 247867; Sez. 4^, n. 23128 del 22/10/2002, dep. 2003, Iannozzi, Rv. 225506); tale valutazione costituisce attività riservata al giudice del merito e, ove non contrastante con fatti accertati o esclusi dal giudice nel processo penale, non è sindacabile in sede di legittimità.

4.4. L’impugnata ordinanza ha, dunque, fatto buon governo dei principi interpretativi consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di condotta colposa ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione.

5. Deve, inoltre, rilevarsi che il giudice della riparazione ha richiamato tanto il contenuto dell’interrogatorio di garanzia reso dal M. (pag. 8), quanto la circostanza che l’indagato avesse infruttuosamente proposto impugnazione presso il Tribunale del riesame per la revoca della misura, nonchè il dato processuale per cui la versione difensiva fosse stata ritenuta verosimile dal giudice della cognizione allo stato degli atti all’esito di giudizio abbreviato, non potendosi dunque ritenere omesso l’esame della condotta endoprocessuale del ricorrente, nel pieno rispetto dei principi enunciati dalla Corte di legittimità (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664).

5.1. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che il giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto, dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, Rv. 222263).
In caso di richiesta di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice deve dunque tenere conto anche della condotta del ricorrente successiva all’esecuzione del provvedimento restrittivo (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664).

5.2. L’ordinanza impugnata risulta aver fatto buon governo del principio sopra indicato con riguardo alle ragioni ostative al riconoscimento del diritto all’equa riparazione in relazione al mantenimento della misura custodiale; si è, infatti, esaminata la valenza ostativa al diritto all’equa riparazione con riferimento alla condotta antecedente all’emissione del provvedimento privativo della libertà descrivendone la complessiva incidenza sull’attività investigativa, tale da rendere non immediatamente percepibile all’autorità giudiziaria l’estraneità del M. alle gravi condotte di riciclaggio contestategli.

5.3. L’ordinanza emessa dalla Corte territoriale resiste, pertanto, anche a tale profilo di censura, non potendosi ritenere sufficiente ad escludere la condotta ostativa al diritto alla riparazione il comportamento collaborativo mostrato dall’indagato dopo l’emissione dell’ordinanza cautelare, qualora il quadro indiziario presenti carattere di tale complessità da rendere necessario il vaglio spettante funzionalmente al giudice della cognizione penale.

6. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; segue, a norma dell’art. 616 c.p.p. , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2015

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